Regia di Woody Allen vedi scheda film
È facile dire che questo è un film da buttare, citazionista del peggio, ripetitore di ciò che noi italiani sappiamo sin troppo bene di essere, sotto il profilo culturale e cinematografico. Basta chiudere gli occhi per non cogliere il significato sottile di questa apparente rassegna di luoghi comuni. E decidere, a priori, di non onorare la scoperta di ciò che, espresso con parole così semplici, è destinato inevitabilmente ed essere scambiato per banale. C’è un filo che collega la gloriosa Roma felliniana e la Roma cafona della moderna commedia all’italiana, passando per la Roma sorniona di Sordi e Manfredi. Un collegamento che si intreccia con naturalezza con i format televisivi d’importazione dei quiz, dei talk show, delle fiction e dei reality. È il percorso meravigliosamente illogico che unisce i termini opposti di un eterno paradosso, l’ossimoro di un provincialismo cosmopolita, prezioso ma sfaccettato senza grazia come un finto diamante da bigiotteria, e grosso e colorato come il cuore di mamma della nostra nazione. Roma è la capitale in cui gli opposti si sommano alla buona, mescolando gli eccessi barocchi dei bei temi andati con l’attuale qualunquismo a poco prezzo dettato dalla crisi di ideali e di moneta. È il luogo in cui tutto accade, come in ogni altra parte del mondo, solo che lì sembra più importante, e degno di girarci sopra un film, per ridere o per piangere. Il sogno de Lo sceicco bianco, al giorno d’oggi, non ha nemmeno più bisogno di divi da riviste patinate, perché la fama, una volta persa la consistenza della carta stampata, assume le sembianze evanescenti di un miraggio popolare, senza storia né ragione. La celebrità può toccare a tutti, per puro caso, a causa di uno scherzo che sovverte le regole del gioco: è la controparte innocua delle trame che assegnano il potere a chi non se lo merita, e poi lo gestisce da incompetente o da buffone. Il malcostume è frutto delle opportunità che la platea dell’Urbe offre a chiunque ne calpesti il suolo, abitandovi o giungendovi per studio, per lavoro, per turismo, per disperazione. E così la futilità si fa tragedia, con tanto di climax e di catarsi, mettendo in scena la malinconia di Melpomene. È una fantasia priva di senso, una megalomania che brilla di luce riflessa, ed è la millenaria magia che ha miracolosamente conservato intatto, fino ai giorni nostri, il mito del caput mundi. Continuiamo a volerci illudere che la caotica galassia del nostro Paese abbia un centro gravitazionale, per potervi collocare le origini delle nostre frustrazioni. I mali vengono da quel posto, che è la fabbrica delle disillusioni, in cui tutto si crea e tutto si distrugge. Come il successo, e in generale, la possibilità di sentirsi diversi e diventare qualcuno. Quella platea amplifica la nostra piccolezza e, per un istante, ne fa spettacolo. Ogni suo angolo, reale come Piazza di Spagna o virtuale come lo studio dei tiggì della RAI, è un anfiteatro dall’acustica eccezionale, che ingigantisce gli echi delle emozioni, degli eventi, dei pensieri, anche quando si tratta delle solite cose cucinate in casa. Una colazione a base di caffellatte, marmellata e pane tostato. Un ragazzo che vorrebbe fare l’architetto d’avanguardia e si innamora di un’attrice hollywoodiana. Una prostituta invitata per un equivoco ad un’udienza in Vaticano. Le storie della strada si fanno poesia con quattro soldi e tanti riflettori, poco importa se la convenzionalità, secondo la moda del momento, coincide con le romanticherie da rotocalco o con le volgarità da bar. Ci piace essere protagonisti, ma vogliamo comunque restare piccini. Con nobile dignità artistica, come nel neorealismo, o con ruspante pochezza di spirito, come nelle gag dei cinepanettoni. Stiamo bene tra di noi, non siamo fatti per affrontare il vasto mondo. Il signor Leopoldo Pisanello non ce la fa più ad essere inseguito dai giornalisti che gli chiedono se Dio esiste. Giancarlo, l’impresario di pompe funebri, ha una straordinaria voce da tenore, ma canta per se stesso, e riesce ad esibirla solo mentre si fa la doccia. La ribalta ci tenta, ma non fa per noi. Sarà per questo che la svalutiamo tanto, denigrando quelle infinite opportunità che, per comodità, preferiamo rifiutare, sbeffeggiandole, pubblicamente, con un gusto autolesionista e sempre un po’ vigliacco. Woody Allen l’ha capito, e vuole salvare Roma dalla nostra crudeltà becera e gratuita, dalla nostra ingratitudine verso la leggenda immortale di cui tutti noi siamo i sudditi. È il suo personale atto d’amore, che rilegge le pagine di celluloide per rivelare l’inganno, proponendo la verità attraverso il nostro stesso sguardo distorto. È la copia ingentilita della nostra malafede, spurgata dei risvolti triviali, e riscritta con essenziale delicatezza. Ed è firmata dalla consueta narcisistica ironia del suo autore. Questo omaggio to Rome reca impresso il marchio di chi volentieri ci mette la faccia. Ma che, per una volta, almeno a Lei, non intende rubare la scena.
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