Regia di Woody Allen vedi scheda film
A scanso di equivoci, To Rome With Love è un film orrendo. Certe cose vanno dette subito, a freddo. Sui titoli di testa Nel blu dipinto di blu apre sinistri presagi sull’immagine stereotipata che abita ogni americano quando pensa al Belpaese.
Bei tempi quando Allen veniva elevato al rango di aggettivo, “alleniano”, con quell' umorismo che affondava le sue radici nel più puro spirito ebraico newyorkese, per dirla alla Nini Salerno dei Gatti di vicolo miracoli. Poi la decadenza, in un surrogato di se stesso, l’ “allenismo” della ripetizione dei cliché, dei tanti film e poche idee. Ora questa fatale tendenza al turismo interessato nella vecchia Europa che sempre l’ha amato, forse più degli stessi americani ma che ora non ne può più di questa ingombrante presenza imposta ossessivamente al di là di ogni ragione plausibile.
Come un parente scomodo Allen finalmente se ne va, dopo aver fotografato l’ennesima capitale e averla ammorbata con il nevrotico birignao del suo cinema Pro Loco, lascia la scia del suo odore stantio nelle stanze e trasportato dalla sicumera dello status d’autore, saluta sorridente senza rendersi conto di che cattivo servizio abbia reso alla causa del cinema.
Pessimi tutti gli attori costretti a stazionare imbarazzati davanti alla telecamera inchiodati da una sceneggiatura da Bagaglino, recitando “à la Allen” in insulsi sketch ad incastro senza ritmo, senza verve. Cinema necrotico tenuto insieme dalla formaldeide del mito che fu e che ora si impantana in una satira inerte, in amori blesi, surrealismi obesi.
Cinema stanco, dimentico di una qualsiasi forma, sbriciolato in un insulso berciare qua e là sulla scena, cinema che oltretutto non ha nei dialoghi un punto di forza come poteva essere in passato ma solo un esile collegamento tra i tristi siparietti tirati via con poca cura, con poca ricerca. Tre storie patetiche di personaggi figurina si sciolgono sullo schermo in una messa in scena “bbòna la prima” che non fa sfigurare affatto le “vanzinate” delle colitiche commedie natalizie. A vantaggio di Allen almeno le flatulenze ci sono risparmiate, ma quanto a pochezza della messa in scena, bidimensionalità di ogni personaggio e sterilità di regia siamo ai livelli del trash nostrano. Cinema dei luoghi comuni, dell’italiano medio albertosordiano, dove le mamme sono brave in cucina e vestono tutte come la ciociara e quando si incazzano imbracciano il coltello. Dietro le facce smarrite del parterre d’ attori convenuti per l’annuale gita fuori porta dell’anziano regista, si stagliano i monumenti product placement d’Italia,così se la consuetudine vuole che da ogni finestra di Parigi si veda la Torre Eiffel, non si può filmare Roma, bloccata in un’ eterna fotografia oleografica dalle dominanti ocra, se sullo sfondo non c’è il Colosseo o la Fontana di Trevi. O le Rovine, come dicono gli americani. E per far intendere subito di come il film sia destinato a palati poco fini, un terrificante doppiaggio di terz’ordine accomuna l’italiano all’adenoidea lingua d’oltreoceano. La cartolina che Allen fa di Roma ha lo stesso effetto di un avviso di pagamento Equitalia: si resta immobili chiedendosi che cosa si sia fatto di male per meritare tutto questo.
P.S. Una prece per Benigni ignobilmente tirato dentro a questo disastro.
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