Regia di Francesco Campanini vedi scheda film
Quattro Cani arrabbiati in fuga dopo una rapina nel 1947. Uno ci lascia le penne, gli altri si avventurano nelle periferie contadine dell’Emilia Romagna. Campanini relega all’incipit il registro gangster del suo esordio Il solitario, virando al thriller rurale nelle colline parmensi. La parte giocata in campo aperto è innervata di suggestioni naturali e concepita secondo una struttura a imbuto - dagli esterni al casolare - tanto cara al recente thriller italiano. Ad attendere i protagonisti c’è una casa dalle finestre che (non) ridono, dove gli aguzzini di turno hanno messo a scaldare i ferri per la tortura. La fotografia d’interni, digitalmente piatta, tradisce lo spirito artigianale di un’operazione che valorizza le tematiche gotico padane (anche) per sopperire alla mancanza di mezzi. La presenza, in veste di regista special guest, di Francesco Barilli facilita in tal senso le cose. Il risultato è un crescendo di sadismo e perversione che disturba e per questo inquieta. Il retroterra del capobanda, ex attore ai tempi del Cinevillaggio di Venezia, crea un curioso cortocircuito tra il serio (la Storia, il cinema) e il faceto: non mancano infatti dialoghi scult («Tu facevi i film con Osvaldo Valenti e la Ferida... altro che fascista, sei un nazista!». «Io ero a Venezia per fare il cinema, mentre tu eri in galera a fartelo mettere in culo!») che però, paradossalmente, solidificano il legame empatico tra spettatore e film. Come a dire: se non vi seppellirà la tortura, lo farà una risata.
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