Regia di Kike Maíllo vedi scheda film
Se non vado errato, Eva è il primo, interessante lungometraggio girato dal regista catalano Kike Maillo.
Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è un film fatto di neve e di legno (così lo ha definito il suo autore) girato fra la Spagna e la Svizzera fra boschi secolari e suggestivi, paesaggi innevati e interni familiari di struggente bellezza, magnificamente fotografato (da Armau Valls Colomer) e ambientato in un futuro prossimo venturo, una volta tanto però privo di tragiche venature “post-apocalittiche”.
Lo spunto di partenza è certamente avveniristico infatti, ma non è asservito e nemmeno dominato da una ferrea logica basata su una tecnologia anche un tantino cervellotica spinta alle sue estreme conseguenze, come accade invece in una grossa fetta del genere fantascientifico soprattutto del presente. Se di fantascienza possiamo dunque parlare (perché anche quest’opera rientra a buon diritto e per più di una ragione in tale filone), la dovremmo definire così solo per convenienza narrativa, perché è davvero quasi totalmente estraneo agli schemi codificati del settore, il risultato a cui il regista approda. Provo a spiegarmi meglio: è indiscutibilmente fantascientifico il soggetto, visto che è una storia che parla di robot (la vicenda è infatti postdatata al 2041, quando si immagina che questi esseri artificiali siano ormai di casa), e fin qui niente di eccezionale, per altro, perchè le intriganti tematiche che affronta non sarebbero nemmeno particolarmente innovative in questo caso, se non fosse per un differente, sensibile e singolarissimo approccio alla materia come quello utilizzato dal regista, perché qui ci troviamo fortunatamente di fronte a un’opera che invece di strabiliarci sulle meraviglie possibili di un futuro in divenire, intende invece trattare e indagare soprattutto sulle relazioni e le connessioni esistenti (o che possono nascere) fra esseri in carne ed ossa e robot, e quindi si concentra con un’ottica decisamente umana e molto contemporanea fatta principalmente di sentimenti, sul rapporto (anche problematico) fra natura e scienza (vista ovviamente nella sua possibile evoluzione) che qui si trasforma alla fine anche in un confronto molto serrato fra un passato soffuso di nostalgia (e di occasioni perse) e un futuro che magari terrorizza anche un poco, ma immaginato comunque come “ecosostenibile”, che è poi quello che affronta in prima persona con tutti i dubbi etici e morali che si porta dietro, Alex Barel, il protagonista del film, un ingegnere cibernetico che ritorna nuovamente a casa dopo una lunga parentesi trascorsa lontano, impegnato fattivamente nella creazione di un bambino robotico dotato però di cervello ed emozioni (e quindi per più di un verso “molto umano”). Un futuro insomma che ci viene raccontato senza alcuna immaginifica costruzione fantasiosa, ma che vuole rappresentare invece una realtà molto vicina (anche “esteticamente”) a quella del nostro presente (gli spazi sono quelli naturali, così come le case, le automobili ed ogni altra cosa, sono esattamente quelle in cui noi viviamo la nostra quotidianità pur avendo al loro interno numerosi elementi robotici, dagli imponenti droni, al minuzioso dettaglio del lettore musicale o delle serrature delle porte), con continui riferimenti per altro che sembrano voler portare a galla un desiderio pressante di passato (corrispondente esattamente a quello vissuto anche dal regista nella sua giovinezza formativa) tra Volvo anni settanta decisamente un po’ “vintage”, e la suadente voce di David Bowie in sottofondo (splendida la colonna sonora di un’opera dove sono gli effetti speciali – tutti estremamente realistici e perfettamente inseriti nel contesto - ad essere al servizio del film e non il contrario).
La costruzione di una macchina artificiale praticamente perfetta come quella che intende realizzare il nostro protagonista, pone ovviamente serie questioni etiche e morali prima di tutto al suo inventore, e non solo rispetto alla natura umana che verrebbe ad essere imitata alla perfezione (e in qualche modo contraffatta), ma anche ai rapporti (reprimerli, celarli o renderli palesi? Come svilupparli? E per ognuna di queste ipotesi con quali esiti e conseguenze?) che potrebbero instaurarsi con una “figura” artificiale così completa e pensante, alle emozioni e ai coinvolgimenti che ne deriverebbero, e al loro possibile controllo. Domande abbastanza inquietanti che implicano il profondo e soprattutto la coscienza alle quali per altro non è facile dare una risposta “certa” (questo non è comunque un film a tesi e quindi giustamente molto rimane “sospeso”, davvero in “divenire”, ma come vedremo più avanti, a qualche pratica indicazione potremo in ogni caso anche approdare, e noi ci proveremo a farlo).
Per il lavoro di creazione e “progettazione pratica” del cervello del bambino robotico, il nostro eroe “inventore” prova a trovare ispirazione (anche comportamentale) nella figura di sua nipote Eva, una bambina invero molto speciale e verso la quale lo lega un rapporto particolarissimo e che… (come apprenderemo poi nel prosieguo della storia) nasconde addirittura un piccolo segreto. Il legame speciale che si viene a creare tra Alex ed Eva porterà infatti a una drammatica rivelazione finale che cambierà le vite di tutti.
Quello di Eva è dunque un mondo popolato di robot ed esseri umani che quasi si confondono fra loro, e in tale contesto, quello di Maillo è davvero un continuo, appassionato omaggio a una fantascienza antica umanisticamente importante come quella degli anni ‘settanta e ‘ottanta, non tanto e non solo nella impostazione generale della storia, ma anche e soprattutto per quel che riguarda le scelte stilistiche della forma (gli stigmi ispirativi più evidenti potrebbero persino essere ricercati addirittura in alcune serie televisive di quei tempi ormai lontani, e in primo luogo, proprio quella - a suo modo di culto - del Doctor Who) con un amalgama perfetto davvero ben dosato in ogni sua parte, che rende l’opera preziosa nella sua semplicità e nel suo saper parlare al cuore degli spettatori, proprio attraverso la forza emozionale di sentimenti basilari come appunto l’amore, la nostalgia e il rimpianto prepotentemente esposti in primo piano.
L’evidente, dichiarata e sentita passione che il registra dimostra qui di avere per i robot e per la loro possibile interazione con gli esseri umani (ancora ovviamente più futuristica che realisticamente attendibile), rende infatti il film un interessante esperimento abbastanza riuscito teso ad esplorare un’ipotesi indubbiamente ancora un po’ peregrina, ma che potrebbe porci anche a breve scadenza (almeno per come ci viene mostrata e raccontata qui) dosi concrete di preoccupanti interrogati sui quali forse è già opportuno meditare un poco.
Al di là di queste considerazioni prettamente scientifiche (e sulle quali è al momento almeno per me abbastanza difficile - se non impossibile - fare concrete ipotesi di veridicità effettiva), il film diventa però a mio avviso particolarmente interessante più che per la modalità anticonvenzionale con cui tratta temi e aspetti tanto complicati, proprio per quella riflessione più universalizzabile che propone e cerca di stimolare, poggiata sulla complessità delle relazioni, sull’amore e sulla morte (e in qualche modo anche sulla diversità) che ci riporta con i piedi per terra e che può benissimo corrispondere al presente (semplicemente con qualche piccolo accorgimento adattativo).
Particolarmente affascinante sul versante visivo, il film è sufficientemente fantasioso anche nelle soluzioni escogitate per rappresentare queste figure possibili e in divenire, spesso senza il ricorso a fredde tecniche computerizzate troppo ingombranti ed artificiose, che vanno da una specie di marionetta digitale (come appunto nel caso del gatto) ad attori che vestono una struttura simile a un’armatura metallica (il bambino robot SI-9).
Il messaggio finale trasmessoci da questa inusuale pellicola? C’è anche questo ovviamente come ho già accennato sopra: probabilmente proprio quello che davvero in nessun modo è possibile (e non lo sarà nemmeno in futuro) programmare i sentimenti, ed è principalmente questo elemento, insieme a una sceneggiatura ben calibrata realizzata a otto mani (e quattro cervelli) da Sergi Belbel, Cristina Clemente, Aintza Serra e Marti Rocca e a uno sguardo registico appassionato ed emotivamente coinvolgente, oltre all’indubbio fascino di una storia tutta in divenire, a rendere commovente e profondo questo debutto abbastanza inusuale.
Essenziale per la riuscita dell’insieme comunque, è anche la resa appassionata degli attori che sembrano essere stati tutti coinvolti davvero in profondità e con sorprendete identità di intenti. Da segnalare in particolare, nel ruolo dell’ingegnere cibernetico, l’ottima prova di un Daniel Bruhl in ottima forma (lo ricordiamo eccellente interprete di Goodbye Lenin, ma anche presenza carismatica in opere quali Bastardi senza gloria e Salvador – 26 anni contro). La maggiore sorpresa però arriva da Claude Vega (qui al suo debutto) davvero perfetta nel difficile ruolo della bambina-adulta che è Eva: la sua è una presenza magnetica e emozionante che rende perfettamente “credibile” un ruolo come quello che le è stato assegnato che se non sorretto da adeguata sicura professionalità, avrebbe potuto evidenziare i limiti di un discorso tanto teorizzante e futuribile come questo e che invece la Vega riesce a rendere con estrema e credibilissima sensibilità, realisticamente attendibile. A posto anche tutti gli altri, da Anna Canovas a Lluís Homar (splendida spalla comica, visto che nel film ci sono anche elementi più leggeri che tendono ad alleggerire il tono drammatico della pellicola).
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