Regia di Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg vedi scheda film
Innegabili ma volatili momenti-sollazzo fanno da stanca cornice alla stanca parabola americanpieana che, nella sua prevedibile traiettoria discendente, ciondola tra coordinate che vagano dalla mestizia al rimpianto della gloria che fu, conferendo in tal modo al corpo filmico una connotazione patetica.
Dall’autocelebrazione all’autocommiserazione il passo è breve: un’occhiata di sotto, verso l’abisso dell’oblio, et voilà, il salto nel vuoto è compiuto.
Sorpassata - in scurrilità, capacità di empatizzare col pubblico “plebeo”, situazioni al limite dell’assurdo, impudenza e abilità nel lancio di volti più accattivanti - dalle produzioni neodemenziali - un titolo su tutti: Una notte da leoni - la serie partita nel 1999 pareva definitivamente tumulata col terzo scialbo capitolo ufficiale datato 2003, invece l’ansiogeno exploit di remake, reboot, sequel, prequel, newquel - quel che cioè certifica la moria della creatività - l’ha fatta resuscitare e destinata a conoscere nuova luce.
E luce fu. Ma opaca, pallida, evanescente, superflua. Rari lampi schizzano, singhiozzano e inseguono/perseguitano le mascelle pronte a serrarsi in estemporanei forzosi sorrisi.
Di ghigno in ghigno l’inghippo è servito. O almeno qualcuno così spera.
Liberarsi in sonore, violente, ignoranti, incuranti risate - in verità - non è possibile: lo si ammetta, è tutta scena ad uso e consumo proprio, mentire a sé stessi per sotterrare la triste realtà.
Tristi, flosci figuri dai lineamenti ammuffiti e gonfi goffamente cercano di replicare mitiche gesta passate riciclando malamente gesti e movimenti, impulsi e soprusi, esaltazioni ed esalazioni - di vapori simpatici, di gas esilaranti -, col risultato che, anziché generare prosperosi e fulgidi fasci d’irradiante comicità, producono sifilitica fumosità le cui polveri addensano/addentano la perenne penombra che, come la nuvola fantozziana, alberga serena sulle loro teste.
Sono anonimamente anonimi: il film è una seduta collettiva catartica per scacciare il demonio Anonimo. Terribile bestia.
Jason Biggs, “brutta copia di Adam Sandler”, come lo apostrofa poco gentilmente un giovincello (l’avrà capita?), spara a salve, sbrodola a comando, svirgola passaggi enfatici, sbandiera il (non suo) salametto senza troppi salamelecchi, sanguina come un alieno. Alienato dall’altro sé, quello d’una volta - forse un doppelgänger ? - che faceva (o meglio: prometteva) sfracelli e lavorava con Woody Allen. Sembra in vacanza premio, con una guida - la sceneggiatura - statica, stitica di fantasia, del tutto inadatta e che ancora insiste a metterlo in condizioni da babbeo mortificanti.
Da slapstick a spastic.
Il discorso vale anche per gli altri, ognuno col suo “bel” ruolo da riproporre, con l’affanno che vermiglia facce in preda a spasmi evacuanti, e con l’aria finto divertita/zombesca da orrorifica sagra paesana.
Stifler stufa dopo due secondi; il resto della fatiscente combriccola funge da arredamento urbano manco tanto bello né funzionale. E non è un caso se l’”oggetto” più interessante risulta essere la “fresca” e “nuova” Kara, virtuosa neodiciottenne supersexy, assurdamente vogliosa di perdere la verginità con il suo ex babysitter Jim. Il quale, da bravo ragazzo qual è, e per non turbare gli animi ingenui e candidi degli spettatori, fa di tutto per non farsela!!
D'accordo, non si chiede né si vuole verosimiglianza, ma minchia, se si sfocia nella fantascienza allora ditelo. E pittate le persone di blu, fategli indossare caschi ergonomici a protezione di macrocefali (che contengono microcervelli) e rendeteli asessuati. Tramite evirazione, così si risolve il problema alla radice.
Alcune (poche) gags vanno a segno, ma sono sempre in pericolo di eccessivo trascinamento, che ne fa sbiadire effetti e portata. Se poi le “portate” sono stracotte, bollite, sfatte, invece di succulenti - ancorché “caserecce” - leccornie si offrono sbobbe che si conficcano e s’appiccicano direttamente in gola configurando un’asfissia dell’ingegno interrotta solo dalla catena difettosa e aritmica di urti umoristici che - a causa dell’insipienza e rugginosità di interpreti-mummie - hanno la dimensione di puerili barzellette da bettola che eiaculano in brevissimo tempo.
Chi s'accontenta ...
Gli ingredienti ci sono, ma quelli principali sono scaduti da un pezzo: che può venirne fuori?
Ed inoltre, in mezzo al necessario campionario/stupidiario fatto di assortite esibizioni femminee, falliche, fecali - sfocate, invero -, di espressioni allusive - per nulla allusive -, di siparietti da avanspettacolo, d’idiotiche mimiche, ecco che non mancano neppure incredibili risvolti buonisti, tipicamente americani, del tutto fuori luogo. Se “ignoranza” si vuole, che ignoranza sia. Ma fino in fondo, senza sciacquare quel poco di cattiveria con ammorbidimenti pseudomalinconici e pseudoriflessivi.
L'amarezza crescente nell’essersi accorti d’aver perso tempo e soldi viene in parte addolcita dall’apparizione angelico/diabolica d’una seducente, splendida Rebecca De Mornay (nei panni della mamma di Finch, per l’inaspettata gustosa vendetta di Stifler), e dalla scena finale ambientata in un cinema con gli impagabili Eugene Levy e Jennifer Coolidge, con i popcorn che ondeggiano al ritmo di un’esultante fellatio.
In quella sala lì sì che c’era da divertirsi, altro che American Pie: Ancora insieme!
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