Regia di Carl Rinsch vedi scheda film
Strano ibrido quello di “47 Ronin”, film che mischia incantesimi e Samurai, e che da tempo figurava nei memento di cinefili e semplici appassionati per la presenza dell’attore che meglio ha rappresentato un modello di mascolinità contemporanea, sempre meno definita sia sul piano emotivo che su quello dell’identità sessuale. Caratteristiche di neutralità che il film di Carl Rinsch prende in prestito, consegnando a Keanu Reeves il ruolo di Kai, mezzo sangue allevato da un signore della guerra di cui sarà chiamato a vendicare l’onore; per farlo Kai si unirà ai Ronin del titolo, disorientati e raminghi, ma pronti alla morte pur di consegnare il colpevole alla meritata punizione. Da questo punto di vista “47 Ronin” è quasi un classico, presentando una storia incentrata sull”ennesimo scontro tra bene e male, con i valori di coraggio e di lealtà della cultura giapponese simboleggiati dal codice etico del samurai, contrapposti all’ambiguità ed alla cupidigia del diabolico Kira, disposto a tutto pur di soddisfare la sua brama di potere.
Una tradizione che però viene meno sul piano formale, quando “47 Ronin”, decidendo di mettere in scena un Giappone edenico e feudale, disegnato su sfondi di armoniosa compostezza, e organizzato sulla conservazioe di di valori imprescindibili, quelli degli Shogun e dei samurai, non rinuncia al cortocircuito postmoderno che si fa beffa di steccati e tradizioni, popolandone il paesaggio con incantesimi e malie, tra arcani incantatori e metamorfosi favolose che, alla maniera del fantasy più recente entrano in gioco ogni qualvolta Kai e la sua banda sono costretti ad incrociare la strega intepretata da Rinko Kikuchi, già apprezzata in “Babel” e “Pacific Rim”, mutaforme e letale nel mettere in pratica la volontà del suo padrone. Se i motivi di curiosità del film si poggiavano sulla curiosità di constatare lo stato di forma, peraltro ottimo, di una star da tempo lontana dagli schermi “47 Ronin” attirava l’attenzione anche per la sfida di proporsi a metà strada tra vecchio e nuovo, con la rappresentazione di un mondo affascinante e leggendario, chiamato a confrontarsi con le manipolazioni, tecniche e contenutistiche del cinema più moderno. Una scommessa che il film di Rinch vince solo a metà; perché se è vero che i riferimenti alla rappresentazione della stirpe guerriera, con le liturgie ed i rapporti di forza che la contraddistinguono, riesce a rispettare la consuetudine iconografica senza risultare inadeguata alla sua natura mainstream, a non convincere è la sincronizzazione delle sue componenti, diseguale nell’alternare lunghi momenti di stasi, a cambi di passo che l’uso del long take indebolisce nella loro funzione alternativa. La sensazione è quella di un film squilibrato, ed in certi cosi dilatato da affievolire l’impatto drammaturgico. A suo vantaggio però il fascino vintage, e l’indubbio carisma di Keanu Reeeves, ancora imprescindbile in questo tipo di operazioni.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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