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Prometheus

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Prometheus

di M Valdemar
8 stelle

There was nothing ...


In principio erano gli Esseri venuti da un altro mondo. Ingegneri di strutture dna.
Creatori di vite.
Distruttori.

Voglio capire perché.
Voglio sapere.
Voglio essere salvato. Dalla Morte.

Poi venne il caos, alimentato dall’inestinguibile, idrofobica sete di (onni)scienza, poiché dei Segni lontani nel tempo erano stati scoperti. Ovunque, e tutti riconducibili ad unica Entità. Ecco la Teoria: dei Grandi Antichi avevano inciso su pietra l’Invito.
Individuato il corpo celeste dove tutto (forse) nacque, parte la missione, con prospettive e mire differenti, e via via divergenti.
Dunque, e cosa mai l’eterogeneo gruppo di uomini e donne troverà in quel luogo così distante, così agognato, così temuto?
Risposte: qualcuna; interrogativi: crescenti; paure: infinite.
Paure indicibili, ataviche, letali.
Terrore dallo spazio profondo.
Magma cosmico liquescente e oscuro che si riversa su occhi e volti intorpiditi e si ri-anima per portare il fuoco della conoscenza.
La disciplina della morte.
Se l’astro è un campo da addestramento, di coltivazione di mostruose creature che albergano nei peggiori incubi, di enorme cripta pronta a deflagrare e risvegliare i propri innominabili abitanti, allora forse l’ennesima manifestazione della stupidità e della protervia umana può scatenare l’Inferno in Terra. Quello peggiore possibile.
E mentre Charles Darwin fa ciao ciao con la manina e coloro che hanno (la) Fede s’attaccano fanciullescamente a feticci, amuleti e desideri - sfocati come in un sogno irrancidito -, e il Prodotto della Creazione degli uomini - un robot umanoide che s’abbevera di ricordi altrui e di battute rivenienti da Lawrence d'Arabia - s’aggira ghignante e misterioso per le tetre gallerie di costruzioni imponenti (e per cunicoli cerebrali, infettandoli), e gioca anch’egli al piccolo Creatore (ché la maternità è sempre una gran bella cosa), il Destino pare segnato. Definit(iv)o.
L'evoluzione frenetica e putrida delle cose passa per percorsi netti, ovvi, “liberatori”: dalla goliardia alla disperazione, dall’incoscienza all’incredulità, dall’iperattività all’immobilità.
La pietrificazione come reazione alla vista dell’indicibile. O forse, all’azione vanitosa e corrotta dello specchiarsi: riflettersi e godere; (non) riflettere e soccombere. Reminiscenze dal remoto.
L'incognita "x" dell’ignota ignominiosa equazione è una (ir)realtà a spirale: nel progressivo svelarla va in scena l’intera gamma emozionale, in crescenti marcescenti stati di alterazione e disorientamento.

[La mia faccia esprime scetticismo.
I miei occhi dubitano.
Le mie tasche voglio riempire.
Un inezia: la vita voglio ingannar.
Voi e le vostre debolezze. Umani.
Stupore. Hey, la piccoletta aveva ragione!
Oh, ma qual meraviglia!
Qui c’è da far soldi.
La scoperta più importante della storia.
C’è qualcosa che non va.
Presenze.
Freddo.
Che significa quello? Chi ha fatto tutto questo? E perché?
Siamo solo un esperimento?
Presenze.
Dentro di me.
Il risveglio della Cosa. Già: ma cosa?
Forse, dico forse, meglio tornare a casa …
E poi: l’Orrore.]  

Fine? Non ancora, non prima almeno di veder saltare come birilli tutti gli stupidi ometti uno a uno: il perverso gioco al massacro s’ha da compiere.
L'aborto immondo pure.
Non ci sono né giusti né buoni né inetti a salvarsi. Non qua, non ora. Ma c’è sempre qualcuno che dimostra un innato e insospettabile istinto di autoconservazione, di attaccamento alla vita. E tenacia, agilità, prontezza di nervi, intelligenza. Che capisce il momento e dà un senso - materiale, spirituale, logico, scientifico, filosofico - agli accadimenti.
E che, sopra ogni altra cosa, vuole (deve) capire, agendo di conseguenza; ed affrontando le conseguenze. Affondando nel viscidume di un abominevole vorticare nell’insostenibile realtà.
Noomi corre. E corre ancora. Con la croce attaccata al collo, con la croce di verità troppe gravose da portare con sé.
Via, lontano da questa città senza nome.
Ancora in viaggio, oltre le stelle. E dentro le impenetrabili nebulose che racchiudono l’arcano.


Con Prometheus il regista Ridley Scott tenta di riprendersi e riabbracciare la “sua” creatura, Alien, battezzata - col fuoco dell’immortalità in celluloide - nel “lontano” 1979. Un’era fa.
A quest’ultima fatica - in termini di aspettative e ricezione - forse non ha giovato, in fase di pre-produzione e lancio, il continuo gioco di conferme e smentite riguardo le presunte parentele ed attinenze col prestigiosissimo capostipite. E’ comprensibile che si voglia tenere viva, accesa la fiamma del mistero, dell’interesse, ma probabilmente un po’ più di chiarezza (o di riserbo) non avrebbe certo fatto male. Ma tant’è: così è stato.
Dunque, inevitabile il paragone: imparagonabile. Per epicità, portata “storica”, per il valore quasi iniziatico, per l’influenza enorme, smisurata, su tutto quanto realizzato in seguito, e nei più disparati ambiti.
Lo stesso Alien, ora, non avrebbe probabilmente più quell’importanza capitale che le viene riconosciuta, indiscutibile ed indiscussa. Altri tempi, altre ere.
Un altro universo.
Questo si (con)fonde con una miriade di (in)validi prodotti da catena di montaggio a largo e rapido consumo, destinato a far perdere le proprie tracce dietro una scia sterminata di sistemi stellari senza qualità (e senza stelle di effettivo merito) che affollano/infestano la lattiginosa galassia-cinema.

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
[E si ricicla, si rinnova, si ripresenta, si reinventa, si modifica - piano, piano, e senza disturbare troppo -, s’incenerisce per risorgere artificialmente ed artefattamente in una “nuova” lucente veste da ri-bruciare, si scarnifica per rivelare l’inconsistenza e schermarla con chincaglieria intellettual-chic, si cela al buio delle memorie infettate da troppo niente per saltare fuori come novità assoluta, si barcamena tra esigenze ludiche e bisogni luridi … Gli zombi abitano - non al, ma - IL cinema …]

La sceneggiatura di Prometheus (scritta a quattro mani da Jon Spaihts, già autore del mediocre script di The Darkest Hour, e da Damon “Lost” Lindelof ) è caratterizzata da una linearità descrittiva ed espositiva classica, facendo ricorso ad abituali meccanismi ed inneschi narrativi che assicurano una performance di livello. Una classicità “rassicurante”, perché permette di assorbire e metabolizzare le riflessioni psico-filosofiche più profonde ed ambiziose sparse in ordine random, e che in fondo non sono nulla di sconvolgente né di innovativo.
Dopotutto, siamo in altri mondi da quelli esplorati, ad esempio, da Kubrick e Tarkovskij. I difetti del copione, che per forza di cose ha natura derivativa, sono piuttosto da riscontrare sia in una mancanza di originalità della storia (ormai nella fantascienza, tra letteratura, cinema, fumetti e quant’altro, s’è visto/letto di tutto), sia nell’avere qualche falla, comunque perdonabile, sia nel suo essere sin troppo esplicativo, didascalico. Nel senso che, se pure alcuni argomenti non sono puntigliosamente spiegati hanno però poca possibilità dall’essere altro da quello a cui si è portati ad immaginare che siano (o che potrebbero essere). In fondo, l’unica porta aperta - ma anche in questo caso siamo nella più classica delle scelte - è il finale: aperto, semplicemente per essere l’incipit di un proseguimento (già annunciato).
E tuttavia, come si diceva poc’anzi, la struttura che racconta gli eventi, i luoghi, i personaggi, ha una base solida, robusta. Più audacia, più intensità e introspezione, ed anche più astrattezza, avrebbero certamente giovato alla pellicola, ma avrebbero altresì spostato verso l’autorialità (e quindi in territori diversi dalle sale affollate) il pericolante equilibrio su cui il film stesso si muove, essendo - lo si rammenti - un blockbuster, e come tale soggetto a regole e mete da rispettare.
La struttura, così concreta ed agevolmente assimilabile - e proprio per questo -, costituisce, in modo estremamente funzionale ed armonico, da perfetto tessuto connettivo a quello che è il vero punto di forza dell’opera di Ridley Scott, ovverosia la resa visiva: eccezionale, impressionante, sbalorditiva.
Un'estetica abbagliante frutto di un lavoro - coordinato dall’ottima ed incisiva regia di Scott (che certo sa come dosare ritmo e tensione) - imponente, preciso, che si esprime compiutamente in tutta la sua magnificenza tanto nella grandezza e varietà - per concezione, cromaticità, profondità - di scenari e ambienti tanto quanto nella ricerca ossessiva e minuziosa di dettagli e particolari.
L'allestimento scenico, potente, rigoglioso, all’avanguardia, ammaliante, a cui partecipa in maniera attiva e sensata la tecnica stereoscopica (che produce almeno un paio di sequenze fantastiche), si rivela estremamente e felicemente appagante, anche per via di ricami e disegni iconografici irresistibili, sia che richiamino il modello noto sia che ne sviluppino uno proprio, in grado cioè di impiantare semi fertili e ad alta diffusione e imitazione. Si aggiungano inoltre i notevoli e penetranti effluvi di umori horror, angosciosi, e si può comprendere come tutte le forze messe in campo (ivi compreso il consueto sopraffino "furente" montaggio di Pietro Scalia) riescano a dare definizione - integra, vigorosa, intensa - ad un’opera che può dirsi, a conti fatti, più che riuscita.
A dare il sostegno necessario è la perfomance degli attori: efficace, credibile, matura. La scelta dei tre attori principali - Rapace, Fassbender, Theron - si è rivelata sicuramente idonea e non casuale.
La prima tratteggia abilmente con tutta la sua fisicità e gamma espressiva funzionale e particolare la figura di Elizabeth Shaw, scienziata armata/bisognosa di sapere e di fede; una specie di eroina moderna che, tra innumerevoli ostacoli, scopre in sé risorse insospettate e genuinamente “femminili” (anche nel suo caso, come sopra esposto, impossibile ed ingiusto il paragone con l’iconica Ellen Ripley di Sigourney Weaver).
Michael Fassbender è David, l’androide se(r)vizievole dai diversi “volti” ed inquietanti fini; personaggio essenziale per lo sviluppo della trama e per l’interazione con gli altri, interpretato alla perfezione - si potrebbe parlare ormai di “ordinaria” mimesi - dall’attore tedesco irlandese.
Charlize Theron, nel ruolo della rampolla ambiziosissima ed iperdiffidente Meredith Vickers - colei che è al comando della spedizione -, fornisce una prova esemplare: la donna che interpreta, algida e quasi priva di emozioni, insensibile e spietata, sembra la “donna perfetta” in esatta corrispondenza/sintonia all’androide David. Quasi una “coppia” la loro, e come sempre, non è chiaro chi comanda chi …
Ci sarebbe anche, a chiudere un bizzarro quartetto, il marito della Shaw, cui presta il volto il non eccelso, talora anonimo, Logan Marshall-Green, che esce di scena prima che le cose precipitino del tutto. Sarebbe stato meglio un attore capace di conferire più spessore e personalità nonché carisma. Peccato. Così come non azzeccata è stata la scelta di affidare la parte del grande vecchio burattinaio, Peter Weyland, all’irriconoscibile - trucco pesante - a Guy Pearce che risulta non molto convincente. Tra i comprimari va invece segnalato senz’altro l’ottima interpretazione di Idris Elba (il capitano Janek).
In conclusione, Prometheus non costituisce (né costituirà, probabilmente) una pietra miliare della fantascienza e della cinematografia in generale, come l’impareggiabile predecessore, ma si tratta comunque di un’opera - la cui materia principale è il mero intrattenimento, con sottili e non pretenziose venature introspettive - di elevata qualità.


That is not dead which can eternal lie,
And with strange aeons even death may die.
[H.P. Lovecraft]

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