Regia di Michael Powell, Emeric Pressburger vedi scheda film
Dramma maestoso, senza concessioni alla pietà o al sentimentalismo.
La domanda che credo ci siamo posti più o meno tutti, quando l'iconico e vertiginoso strapiombo fa la sua prima apparizione nelle battute iniziali del film è: "Chi finirà divorato da quell'abisso senza fondo?". Dunque un'inquietudine strisciante e strana si insinua da subito dentro l'opera e si autoalimenta, come un organismo vivente, come un personaggio aggiuntivo. Ha il respiro di quel vento che incessante ulula contro la missione delle monache. Ha gli occhi ripieni di gelosia e di lussuria di sorella Ruth. Ha la mente onusta di malinconie e forse di rimpianti, di sorella Clodagh. Sono eroine tragiche, queste monache. Tutto quello che in altri autori (per esempio Buñuel) è crassa satira anticlericale, in Narciso nero si configura solamente come dramma personale, spogliato di qualsiasi sottotesto polemico. L'utopia civilizzatrice delle sorelle si frange fatalmente contro le evidenze dell'uomo e della natura del posto. I fallaci schemi della repressione barcollano esangui al cospetto della Verità del mondo. I sensi e gli istinti acquisiscono nuova vita, la loro vera vita. La liberazione dalla terribile pastoia dell'abito monacale di Ruth non è quindi un atto blasfemo. Non ha il sapore di resa della Viridiana di Buñuel di fronte alle malvagità secolari. È una liberazione dalle sovrastrutture repressive dell'uomo. È un nobile atto di sovversione della regola costituita. Probabilmente una follia utopistica anch'esso: Ruth del resto pagherà un caro fio per l'affronto perpetrato, in una sequenza memorabile, che si colora di impensabili tonalità orrifiche (lo sguardo da posseduta di Ruth, praticamente da Esorcista). Abbiamo quindi una risposta all'angoscioso quesito iniziale: è Ruth colei che precipita, ma l'inquietudine non si dissipa, perché le sue consorelle nel frattempo sono precipitate in un abisso virtuale, di dubbi irrisolti, fors'anche più profondo.
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