Regia di Michael Powell, Emeric Pressburger vedi scheda film
Ideali e passioni, funzioni da svolgere e tentazioni, così come mondi agli antipodi, si scontrano nell’opera di Michael Powell e Emeric Pressburger, summa dell’utilizzo espressivo dei colori, un vero e proprio capo d’opera in tal materia.
Al di là di questa eccellenza, è un’opera contrappuntata da una serie trasversale di qualità.
La giovane suora Clodagh (Deborah Kerr) è a capo di un gruppo di monache con il compito di sviluppare un convento in un piccolo paesino sull’Himalaya per istruire e curare la popolazione locale.
Il rapporto con la gente del posto è complicato, l’affascinante Dean (David Farrar) le aveva avvertite, ma sarà proprio la sua presenza a spingere sorella Ruth (Kathleen Byron) a compiere un gesto inaspettato che cambierà tutto.
Il narciso nero è un profumo, una contagiosa essenza del desiderio che si respira nell’aria, un segno di come sia difficile incatenare l’istinto umano.
Uno dei tanti simboli, come il luogo scelto che sembra toccare il cielo o la nebbia che offusca il paesaggio in segno di sconfitta, che pervadono un’opera attraversata da conflitti e suggestioni, un clima agitato con un mare interiore sempre più burrascoso con l’azione che si snoda all’interno di un palazzo che in principio fu luogo di piacere carnale e che, visto da fuori, ha le sembianze di una prigione.
Una visione laica, con luci e ombre e un’espressività che raggiunge livelli subliminali.
Proprio per conseguire questo risultato, si scelse di eseguire la ricostruzione in studio a Londra, il che permise di dare gran sfoggio delle capacità scenografiche di Alfred Junge, premiato con l’Oscar per un lavoro incredibile, e la fotografia trasformò in maestro Jack Cardiff (il premio Oscar fu un riconoscimento innegabile).
Proprio dalla manipolazione dei colori, sopraggiungono note liete, i vertici dell’opera, tra il nero che inghiottisce una figura, e con essa la fine di una storia d’amore, una visione che sfuoca sul rosso in un anfratto di delirio, ma gli esempi potrebbero proseguire a lungo.
Un clima sapientemente ricostruito, con il momento topico, e plurimenzionato, del concitato confronto (pre)finale tra una fuori di senno Ruth (lo sguardo di Kathleen Byron è leggendario e anche in questa evidenza c’è la mano del colore) e Clodagh che sente ormai da vicino di aver fallito e la condanna di un mesto ritorno.
Un’opera che trasuda cinema, esteticamente superlativa, con una trama sostanziosa che trae continua linfa dai dettagli messi in evidenza, ma che già nelle sue profonde radici diventa perno tanto da risultare rapidamente assimilabile anche da un occhio meno esperto.
Pietra miliare che ogni appassionato di cinema dovrebbe avere nel suo bagaglio di esperienze.
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