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Narciso nero

Regia di Michael Powell, Emeric Pressburger vedi scheda film

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La recensione su Narciso nero

di Antisistema
9 stelle

Nel saggio “Orientalismo” di Edward Said, il concetto di “Oriente” è stato plasmato e definito in funzione del termine “Occidente”, legittimando così l’eurocentrismo. L’altro rispetto rispetto a sé viene rappresentato in funzione del proprio sguardo. Non c’è comunicazione tra i due mondi, ma solo pretesa superiorità di una parte nei confronti di un altrove visto come selvaggio, stravagante, superstizioso, arretrato, povero; in poche parole “barbaro”. Powell&Pressburger con “Narciso Nero” (1947), dimostrano quantomeno un senso di rispetto nei confronti di un mondo così lontano dal loro, pur non afferrando mai la piena profondità spirituale e sociale delle popolazioni dell’Himalaya - la figura del "Sant'uomo" risulta un mistero per le religiose tanto quanto per i due cineasti stessi -. Non mostrano altrettanta tolleranza le componenti della congregazione cattolica dell’Ordine di Santa Maria insidiatasi a Mopu, in un ex-palazzone adibito ad harem in passato, capitanate dall’ambiziosa suora Clodagh (Deborah Kerr), con le sue cinque consorelle; Philippa, abile nel piantare ortaggi, Honey, capace di farsi ben volere, Briony, rinomata per l’abilità medica ed infine Ruth (Katlheen Byron), assai vacillante nella sua fede. Scopo duplice della missione consiste nell’assistere i malati ed impartire un’istruzione ai bambini delle famiglie locali. Nobili intenzioni, ma finiscono con lo scontrarsi con le concrete pratiche dell’agire. Le suore nel raffrontarsi con gli indù, mostrano un non celato atteggiamento di superiorità tipica di una mentalità colonialista invece che di umile e disinteressato altruismo nei confronti del prossimo. Clodagh e le sue consorelle, sono del tutto incapaci di entrare in comunicazione con l’altro, visto solo in un’ottica passiva o al più un fastidio come Kanchi (Jean Simmons), eppure non sono proprio quegli ultimi, che avrebbero più disperato bisogno della parola di Gesù? La stessa fede viene messa assai a dura prova dal nuovo convento di Santa Fede, situato a stra-piombo sulle alti vette dell’Himalaya, che lo rende più una prigione, che un luogo di culto. Le suore, sono costrette ad una vita contro-natura, in una incessante lotta tra opposte tendenze. Ascetismo o carnalità. Spiritualità o desiderio. L’aria rarefatta dovuta all’altitudine, rimuove le artificioso inibizioni, portando a galla il rimosso e con esso le contraddizioni dovute alla consacrazione della propria esistenza, verso un ideale che squalifica la dimensione corporea. Pressburger, scevro da preoccupazioni da storytelling convenzionale, sviluppa una scrittura atta ad indagare la dimensione interiore celata, attraverso audaci venature psicanalitiche. Powell concretizza l’immanenza, grazie alla sperimentale fotografia di Jack Cardiff, capace di esplorare nuove frontiere del Technicolor in una modalità espressivo-narrativa. Il bianco degli abiti delle suore, diventa una tavolozza su cui imprimere shock cromatici, tramite contaminazioni di rosso e conflitti giocati sul chiaroscuro.

 

Deborah Kerr, David Farrar

Narciso nero (1947): Deborah Kerr, David Farrar

 

È il trionfo dell’anti-naturalismo. Delle scenografie costruite negli studiosi di Pinewood. Del controllo totale delle fonti di luce. Degli esterni girati nel Sussex in cui si può ricreare ogni angolo di impero britannico e spacciarlo per ripresa in loco. Powell&Pressburger scelgono di abbandonare ogni pretesa di realismo, facendo del mondo esterno una trasfigurazione di passioni e conflitti interiori. La campana del convento posta a stra-piombo su abisso scosceso - ricreato con angolo di macchina a 20 gradi e giustapposizione di fondali -, rende palese l’artificioso presente nelle regole di vita auto-impostasi dalle suore. Lo squarcio dell’immagine, contribuisce a far emergere il dissidio presente in suora Clodagh, tra la vita laica precedente, dissoltasi in un nero pesto senza contorni ed il contrasto con l’attuale consacrazione spirituale, portando quell’abito bianco, che inghiotte nota di colore e di umanità.
A Mopu si può vivere solamente in due modi; o lasciandosi andare del tutto come fa Mr. Dean (David Farrar), satira su di giri del tipico colonialista britannico oppure come il Sant’uomo, in totale ascesi e distacco dall’esistente.
Il colore diventa strumento primario, su cui costruire un melodramma estremo, privo di ogni freno inibitorio dopo aver respirato il forte aroma del narciso nero. Il bianco racchiude in sè l’emblema della purezza e della supposta superiorità dell’essere inglese, che aspira a quel cielo celeste di ideale perfezione. Gli indù locali dalle carnagioni scure, indossano vestiti dalle tonalità calde e colmi di gioielli d’oro, assumendo un fascismo misterioso quanto indecifrabile, legando la loro condizione a tradizioni di difficile comprensione e dal forte legame con la materialità della terra, da cui trarre piaceri e passioni. Tale conflitto s’insinua tra le suore, portando ad un esacerbante contrasto tra santità e carnalità, nel campo e controcampo tecnico-cromatico, tra il bianco pallido del viso suora Clodagh ed il rosso acceso del rossetto applicato sulle labbra da Ruth. Uno scontro tra due visioni, indice di un dissidio tutto interno alla missionaria, che nella sorella “caduta”, vede i propri desideri repressi nei confronti di Mr. Dean, trovare concretezza. Lo sfondo asseconda la tensione emotiva dei personaggi. L’azzurro cede all’avanzare dell’arancio, impregnando la scena di una tensione emotiva, capace di riempire anche la stessa soggettività dei punti di vista. Innanzi ad un estremismo delle sensazioni senza più argini, corpo e mente soccombono ad una lotta tra opposti senza verdetto. Clodagh, ancor più dei due cineasti ne esce con una forte sensazione di fallimento, nei confronti di un oriente, verso cui si era posta con atteggiamento da “donna bianca” paternalista ed altezzoso, finendo con il perdere tutto, senza trarre nessuna morale dalla vicenda. Come farà del resto la stessa Inghilterra, incapace di apprendere alcun insegnamento da un subcontinente indiano, diviso in due tra induisti e musulmani. Ancora una volta miope alla comprensione dell’altro, riproponendo senza fine i fantasmi dei propri fallimenti.

 

Deborah Kerr

Narciso nero (1947): Deborah Kerr

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