Regia di Michael Powell, Emeric Pressburger vedi scheda film
Uno dei capolavori degli “Archers” in cui il talento immaginifico di Michael Powell è integrato perfettamente alla valida scrittura di Emeric Pressburger, e ne risulta una splendida veste visiva e profondità di lettura.
Questo film è stato ispirato da un romanzo della scrittrice R. Godden del 1939 e racconta di un gruppo di suore capeggiate da suor Clodagh (Deborah Kerr) che, su invito del generale a capo di uno stato sull’Himalaya, vi si recano per istituire una scuola ed un ospedale alloggiando in un vecchio edificio, in passato un harem, custodito dall’anziana Angu (May Hallatt); il le suore hanno anche la collaborazione dell’agente del generale, il signor Dean (David Farrar).
Fra gli altri interpreti, tutti lodevoli, sono degni di menzione la coprotagonista Kathleen Byron (suor Ruth), Flora Robson, Sabu e l’allora diciottenne Jean Simmons (la sensuale Kanchi); la spendida realizzazione visive, tipica degli Archers, è dovuta anche all’efficace lavoro degli abituali collaboratori: il grande direttore della fotografia Jack Cardiff, lo scenografo Alfred Junge e il costumista Hein Heckroth. Il film fu premiato, a ragione, con gli Oscar per la fotografia e la scenografia.
Il film, oltre all’esplicita dimostrazione delle difficoltà incontrate dalle suore nel diffondere il cristianesimo in una popolazione rurale con una tradizione religiosa profondamente diversa da quella occidentale, presenta anche altri livelli di lettura. Oltre la problematica religiosa, e concomitante con essa, vi si può anche vedere un’implicita critica al colonialismo (il film è stato girato nel 1947 quando l’Inghilterra si accingeva ad abbandonare l’India, la sua principale colonia): le suore, pur con la cooperazione dello scettico signor Dean, falliscono nel tentativo di “cristianizzare” (o “civilizzare”) la popolazione indigena, che in realtà è del tutto impermeabile all’occidentalizzazione. Emblematica, al riguardo, la scena in cui il santone del luogo non ha alcuna reazione alla visita delle suore, rimanendone del tutto indifferente e muto, a dimostrazione dell’impermeabilità delle due culture nonostante quella occidentale si reputi paternalisticamente superiore a quella indiana, invero ben integrata nella società. Qualcuno vi ha anche visto una corrispondenza con il famoso racconto di R. Kipling “L’uomo che volle farsi re”. Inoltre, anche se implicito e sotterraneo, vi è qualcosa di simile a un triangolo amoroso che attraversa la storia fra suor Clodagh, suor Ruth e il signor Dean.
L’evolversi della vicenda è immerso nella tipica atmosfera dell’alta montagna, con la sua rarefatta limpidezza della luce e i vividi colori, questi spesso con valenza simbolica ( ad esempio: rosso = passione, nero = morte, bianco = fede, purezza). È questa atmosfera che erode i lacci che frenano le intime pulsioni delle protagoniste conducendole al fallimento della loro missione: ciò conferma che l’imposizione dall’alto della regola monastica o del modo di vivere occidentale su soggetti che tenderebbero spontaneamente a qualcosa di diverso crea di fatto una situazione di squilibrio soggetta a deflagrare: non a caso alla fine suor Clodagh si salva a stento rimanendo (letteralmente) aggrappata alla sua fede, mentre suor Ruth precipita nell’abisso delle sue pulsioni terrene.
In conclusione ritendo questo film uno dei grandi capolavori degli autori, personalmente il mio preferito insieme con I racconti di Hoffmann.
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