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John Carter

Regia di Andrew Stanton vedi scheda film

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La recensione su John Carter

di PompiereFI
6 stelle

John Carter (un Taylor Kitsch anonimo alle prese con il suo primo grande ruolo) è un cavalleggero dedito alla fuga facile. Si dilegua dalla morsa dell’esercito durante la Guerra di Secessione Americana con la stessa caparbietà con la quale sgattaiola dagli indiani e da mostri alti e verdi che abitano su Marte. John è un pacifista incallito e, durante la ricerca di una cava d’oro, si imbatte in un artefatto bluastro che lo proietta dritto dritto su un altro pianeta.
L’atterraggio non è dei più comodi e con l’occasione scopre di essere stato caricato a molla, essendo capace di spiccare grandi salti in lungo e in largo. Capisce anche che il mondo sul quale si trova non si chiama proprio Marte, bensì Barsoom, e rischia di consumarsi e perire a causa di una guerra in corso. La città di Zodanga, che batte bandiera rossa, ne è responsabile.

Solo la grande città di Helium, che invece batte bandiera blu, ha osato resistere e opporsi ma ha perduto le sue ultime squadriglie e i soldati sono un po’ depressi, nonostante la loro principessa dagli occhi blu Dejah Thoris (Lynn Collins, già intravista in “True Blood”) sia alle prese con i provini su un discorso alla nazione. Lei ha scoperto cos’è il nono raggio e il suo potere illimitato. Ci sarà qualcuno in grado di capirla e aiutarla nel tentativo di salvare Barsoom?

 

Andrew Stanton, autore di pregevoli film d’animazione come “Alla ricerca di Nemo” e “WALL-E”, esordisce nel genere fantasy traendo spunto dai famosi romanzi d’avventura interplanetari di Edgar Rice Burroughs, editi fin dai primi del Novecento in ben undici volumi.

I risultati della trasposizione su grande schermo sono altalenanti tendenti al basso: se è vero che a tratti l’avventura ci fa gustare il buon sapore esotico dei film à la Jules Verne e il montaggio si lancia in imprevedibili ellissi, spesso si creano dicotomie sulle capacità di svago, ritmo ed entusiasmo. Se le attitudini registiche di Stanton rimangono di buon livello, senza che si facciano prendere da inutili voli pindarici, e il film sia pieno zeppo di oggetti e particolari che contribuiscono ad alimentare l’attenzione dello spettatore, è chiaro che non ci troviamo di fronte a un prodotto originale.

 

La sceneggiatura risulta purtroppo spogliata da quella novità necessaria a un film del genere per poter risultare memorabile e coinvolgente: scritta a quattro mani (!) tra Stanton e lo scrittore premio Pulitzer Michael Chabon, schiamazza incerta tra gli imbarazzanti sorrisi di compiacimento che si scambiano i due protagonisti (notare come a John si indurisca facilmente il metallo e raramente gli si sciolga il cuore), in un processo di analisi interiore superficiale e musone.

 

Con la cifra spropositata messa a disposizione dalla Disney (circa 250 milioni di dollari!) si sarebbe potuto fare di più per dare alla pellicola un aspetto e un’epicità dignitosi. A cominciare dalla scelta degli attori: Bryan Cranston viene lasciato marcire in un ruolo di terza fascia (quand’è che qualcuno smetterà di fare il gallo nel pollaio dei giovani di “talento” e si dedicherà seriamente all’importanza del casting?).

Willem Dafoe è irriconoscibile: alto quasi tre metri, ha la pelle verde ed è quasi più bello rispetto al solito mentre interpreta un personaggio della tribù dei Tharks. Circondato da un design accattivante, tuttavia non propriamente generoso di gamme espressive, patisce gli effetti della tecnologia del performance capture, la quale incide negativamente anche sulle differenze razziali e le gradazioni culturali dei popoli in guerra. I movimenti dei marziani sono circostanziati da abili sfumature del volto e ammutoliti da spostamenti che richiamano vagamente gli action figures, tanto che i Tharks vengono costretti a lanciarsi, con i tipici quattro salti, dalla padella nella brace. Ma questa è un’altra storia. Dispiace che anche la Disney si pieghi così facilmente alle logiche commerciali (anch’esse in odor di scricchiolamento) senza considerare seriamente la possibilità di riuscita di una fiaba più raccolta e poetica.

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