Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film
Pur rientrando nel filone dei remake dei film europei rifatti per adattarli al palato statunitense, Contraband risulta più interessante della somma delle singole parti. Il merito è di Mark Wahlberg, saggio produttore e ottimo interprete molto sottovalutato, che nutre un forte gusto per le ambientazioni operaie e sa circondarsi di attori capaci di sintonizzarsi sul suo registro minimale (Giovanni Ribisi, Ben Foster, l’ottimo Caleb Landry Jones). A ciò si aggiunga un direttore della fotografia del valore di Barry Ackroyd che vanta al suo attivo The Hurt Locker e Green Zone. Pur non essendo l’ambientazione portuale all’altezza di quella degna di Jules Dassin assaporata nel corso della 2ª Stagione di The Wire, Contraband riesce a farci dimenticare di essere un rifacimento di Reykjavík-Rotterdam di Óskar Jónasson e a inserirsi agevolmente nella poetica operaio/familista dominata e/o minacciata dal tradimento, caratteristica dell’attore e produttore così come questa si è andata sviluppando da Entourage a The Fighter. Wahlberg riprende il ruolo che fu di Baltasar Kormákur nel film di Jónasson, e per tirare fuori dai guai il cognato decide di tornare a Panama e contrabbandare banconote false. La pellicola si concede il lusso di carburare con lentezza, permette alla tensione di gonfiarsi, e poi dispiega un micidiale meccanismo da caper movie che evita accuratamente il rischio del virtuosismo fine a se stesso. Si potrebbe obiettare che è tutto già visto, ma sono il gusto, lo sguardo, la solidità di un’idea di messinscena, limitata fin quanto si vuole, e la precisione dell’esecuzione a convincere e a fare la differenza. I limiti strutturali e produttivi diventano così il perimetro e il segno esatto della sua riuscita filmica. Inoltre Contraband resta ancorato saldamente al suo ambiente e alle facce (William Lucking, il Piney di Sons of Anarchy, è il padre del protagonista; David O’Hara incarna da par suo il ras del porto). Con tutte le differenze del caso, pura serie B solida e saporosa come un discaccio di punk’n’roll di Jason & the Scorchers. Una volta un film come Contraband era solo “cinema di genere”. Oggi, invece, con i suoi limiti, ci ricorda tutto ciò che il cinema americano non è più.
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