Regia di Roschdy Zem vedi scheda film
In America ci sono i legal thriller, con eroici avvocati che vincono cause impossibili. Qui da noi, in Europa, ci sono invece storie di casi giudiziari che rimangono tristemente irrisolti. Vicende di poveri innocenti che non ottengono mai giustizia. Come Omar Raddad, il giardiniere marocchino analfabeta, accusato, nel 1991, di aver brutalmente ucciso la sua datrice di lavoro, la signora Ghislaine Marchal, proprietaria di una villa sulla Costa Azzurra, ed appartenente ad un’influente famiglia francese. Contro di lui non esiste alcuna prova credibile: l’iscrizione, effettuata, sul luogo del delitto, col sangue della donna assassinata, “Omar m’a tuer” (Omar m’ha ucciso), e contenente un vistoso errore di ortografia, non può che essere parte di una messinscena. La magistratura sposa quella che sembra una versione di comodo, mentre ad indagare a fondo sulla verità dei fatti è uno scrittore incaricato dalla difesa, Jacques Vergès, che assisterà l’imputato durante il processo. Dichiarato colpevole, e condannato a diciotto anni di reclusione, Omar otterrà la grazia dal presidente Chirac nel 1998, ma non sarà mai riabilitato. A decidere di portare la sua storia sul grande schermo è Roschdy Zem, l’attore francese di origini marocchine che abbiamo visto recentemente in Uomini senza legge (2010) e in A bout portant (2010). Questo è il suo secondo film da regista, dopo Mauvaise Foi (2006), una commedia dedicata alle problematiche interreligiose. E ci mette tutta la passione di chi conosce bene la realtà delle minoranze e le questioni legate all’integrazione degli immigrati. Il suo punto di vista non è imparziale, dato che la sua fonte ispiratrice è il libro Pourquoi moi? pubblicato nel 2001 dallo stesso Omar, che, in carcere, ha anche imparato a leggere e scrivere. La sua posizione è un innocentismo forse un po’ superficiale, però perfettamente calato in un dramma che, pur essendo estremamente doloroso, può manifestarsi solo con i toni acerbi di chi non si sa esprimere a parole. Omar non ha la capacità di argomentare col pensiero, e per questo ricorre a iniziative drastiche, come lo sciopero della fame e della sete, o un tentativo di suicidio compiuto ingoiando una lametta da barba. I giudici hanno gioco facile con un individuo che non ha le risorse per rendersi credibile, perché è sempre vissuto rinchiuso nel suo piccolo mondo, fatto di famiglia e giardinaggio. È una figura troppo debole per potersi opporre all’impianto accusatorio, ma, d’altra parte, è talmente poco solida da non poter ragionevolmente reggere nemmeno l’articolato sistema di congetture su cui si basa la cervellotica ricostruzione dell’omicidio. Omar è il classico personaggio fuori posto in una situazione che è troppo complessa per appartenergli: ne subisce, suo malgrado, le conseguenze, ma non è minimamente in grado di interagire criticamente con essa. Omar parla solo arabo, e già questo lo esclude da un confronto dialettico che si svolge su un altro registro linguistico: quel difendersi in francese, in cui il suo compagno di cella lo invita ad esercitarsi, è, per lui, un’impresa totalmente fuori dalla sua portata. In altri termini, Omar può interpretare solo il ruolo della vittima, in tutte le sue accezioni: quelle che sfociano nel silenzio, nel rifiuto, nell’autolesionismo. Roschdy Zem lo vede così: disarmato e disperato, senza voce e senza forza, in balia di meccanismi che non potrà mai capire. Nella sua ingenuità, mostra un modo teneramente primitivo di salvaguardare la propria dignità: di fronte a una minaccia sconosciuta, l’istinto gli suggerisce di farsi piccolo, di rintanarsi nel proprio essere, di rendersi invisibile, di darsi la morte prima di essere raggiunto dall’attacco finale. Nell’emergenza, Omar chiama a raccolta, intorno a sé, quel poco che ha: la certezza di non aver fatto alcun male, e quello che, secondo la sua semplice visione della vita, è il coraggio di essere uomini. Omar m’a tuer è un film girato da questa prospettiva, nella quale l’evidenza è quella che appare agli occhi degli umili, mentre tutto il resto è eccessivamente incerto, complicato, e quindi probabilmente falso.
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