Regia di Yoji Yamada vedi scheda film
Love and honor è un film giapponese del 2006 diretto da Yoji Yamada. l'opera è attualmente visibile gratuitamente e legalmente su RaiPlay.
Sinossi: Ultimi anni dell’epoca Tokugawa, il giovane samurai Shinnojo Mimura vive insieme alla sua famiglia (moglie ed anziano servitore) in una casetta all’interno di un castello appartenente ad un noto signore feudale.
Il ragazzo sogna di aprire una scuola di kendo ed insegnare l’arte della spada ai bambini, senza applicare distinzioni di casta tuttavia la realtà è ben diversa ed il giovane consapevole della sua scarsa rilevanza in ambito politico accetta a testa bassa una professione altamente umiliante.
Shinnojo Mimura è un assaggiatore ed il suo unico compito è evitare che il suo signore mangi cibo avvelenato.
Un giorno sfortunatamente il nostro samurai “degusta” del sashimi avariato che gli causa gravi danni di saluta e per di più l’incidente peggiora inesorabilmente la sua già fragile condizione sociale…
Con Love and Honor il veterano Yoji Yamada conclude la sua peculiare “trilogia del samurai” ispirata ad alcuni romanzi storici di Shuhei Fujisawa (1927-1997). Trilogia iniziata nel 2002 con Il crepuscolo del samurai e proseguita nel 2004 con Hidden Blade.
Siamo di fronte a jidaigeki crepuscolari atti a disgregare l’antico mito del samurai, ormai ridotto ad una sorta di primitivo salaryman ed impegnato in lavori atipici che non contemplano più la spada. A proposito altamente significativa l’ambientazione; le pellicole si svolgono negli anni turbolenti del Bakumatsu, periodo che segna la fine dello shogunato ed apre ad una graduale e forzata occidentalizzazione del paese (vedere le navi nere del temuto commodoro Perry).
Inoltre tutta la trilogia, pur non priva momenti solenni in cui emergono tracce tipiche del chambara classico, è focalizzata sulla quotidianità ordinaria e modesta del samurai e Yamada è bravissimo a rappresentare tali situazioni con una cura formale tanto semplice quanto maestosa.
Yoji Yamada in Love and Honor fin dalle prime immagini cattura l’attenzione dello spettatore attraverso una minuziosa rappresentazione del periodo mostrandoci la vita all’interno di un castello feudale vero e proprio microcosmo dove l’estrazione sociale è determinante, pena una vita di stenti e miseria.
In precedenza si accennava ad una rielaborazione del ruolo del samurai in epoca Tokugawa, ed infatti i giorni gloriosi in cui si battevano con onore contro nemici temibili ormai sono solo un lontano ricordo e adesso si devono guadagnare il riso accettando incarichi in precedenza neppure lontanamente associati ad un samurai.
Il giovane Shinnojo Mimura soffre terribilmente questa sorta di declassificazione della sua attuale posizione e vorrebbe abbandonarla ma in una società pervasa da incalcolabili tradizioni ed usanze è follia pensare che un semplice samurai di basso rango possa permettersi di abbandonare il suo lavoro.
Ricollegandoci al discorso della meticolosa raffigurazione del periodo, risulta altamente interessante osservare il suo suddetto lavoro (assaggiatore di corte) composto da un iter preciso denso di regole da rispettare alla lettera; un percorso incredibile, dettagliatamente messo in scena il tutto sotto gli occhi disgustati del nostro samurai che reputa inutile ed assurdo tale procedimento.
Yoji Yamada pone altresì importanza al turbolento e drammatico rapporto fra il protagonista e sua moglie. Inizialmente la coppia è davvero affiatata ed emerge chiaramente il piglio rivoluzionario e moderno del nostro samurai che si pone sullo stesso livello della donna, rispettandola e soprattutto coinvolgendola in vari modi; non a caso è proprio lei la prima a cui confessa il suo più grande desiderio (abbandonare il ruolo di assaggiatore ed aprire una scuola di kendo).
Sfortunatamente il grave incidente occorsogli modifica le carte in tavola spingendo collateralmente la moglie a compiere, per amore, un gesto avventato che le costerà carissimo, provocandole immensi dolori.
Il dramma è tangibile, ciononostante la regia soave ed elegante (ci torneremo dopo) in qualche modo smorza leggermente la tensione senza però risultare banale, bensì aiuta lo spettatore ad assimilare al meglio quanto visto/percepito; per di più in alcune di queste scene il regista non si risparmia una bella critica ad alcuni personaggi autorevoli che sfruttano senza ritegno la loro posizione di potere, perpetuando ignobili gesti; eclatante il caso del samurai di alto rango che stupra la moglie del protagonista.
Continuando sul versate drammatico impossibile non spendere due parole sulle conseguenze del fatale incidente subito dal protagonista, a causa del quale perde la vista. Shinnojo Mimura dunque è un samurai cieco ricordando superficialmente il celebre Zatoichi, però il caparbio massaggiatore (intrepretato prima da Shintaro Katsu e poi da Takeshi Kitano) è un personaggio tutto d’un pezzo mentre al contrario il nostro Mimura si lascia subito andare, cadendo in una profonda depressione e meditando addirittura il suicidio. Solo nel finale ritrova la via del samurai, riscattando l’onore della sua amata.
Yoji Yamada cura molto anche la regia, privilegiando uno stile sobrio e minimalista simile a quello di Yasujiro Ozu (ricordo che in patria Yamada è stato a lungo considerato il maggiore erede del grande maestro; in aggiunta Yamada ha lavorato con Ozu in veste di assistente alla regia).
Nel film non mancano sequenze caratterizzate da una macchina da presa fissa ad altezza tatami unita ad una grande profondità di campo in grado di riprendere dettagliatamente sia un’ambiente interno sia l’esterno (ad esempio la camera è posizionata all’interno della casa con l’asse rivolto verso il cortile adiacente).
Detto questo il regista sfrutta al massimo le potenzialità linguaggio cinematografico offrendoci delle piccole e meravigliose lezioni di regia. Una sequenza inizia con la camera focalizzata su di un’inferriata che sfocia sul giardino, ad un certo punto la camera arretra attraverso un lentissimo movimento selettivo dalla duplice funzionalità: introduce l’ambiente (siamo nelle cucine del castello) e allo stesso tempo enfatizza la condizione del protagonista prigioniero del suo lavoro, anzi pensandoci bene anticipa persino il suo funesto destino poiché non potrà mai più vedere quel bellissimo panorama.
Nei minuti conclusivi Yamada ci concede pure una fantastica scena d’azione composta dal tradizionale duello ad armi bianche fra due samurai. Scena carica di tensione (ottimo e centellinato utilizzo della carrellata laterale e della panoramica) ma distinta sempre da una certa eleganza.
Love and Honor è la degna conclusione di una trilogia amatissima in patria che ha sancito ancora una volta il talento cristallino del grande Yoji Yamada, forse l’ultimo regista “classico” del cinema giapponese.
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