Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Sono passati quasi dieci anni dalla sua uscita, ma il film proprio in questi giorni è tornato di bruciante attualità, poiché la gravità della pandemia ha fatto riemergere la questione del trattamento dei condannati alla reclusione carceraria, anche in vista del loro umano ricupero e reinserimento sociale.
Complesso film, meritato Orso d’oro a Berlino nel 2012, firmato dagli allora ultra-ottantenni fratelli Taviani, tutti e due ancora impegnati a girare insieme, con rinnovato impegno civile, il celeberrimo Giulio Cesare shakespeariano.
In questo caso, però, la gloriosa pièce è l’occasione per far recitare un certo numero di detenuti un po’ speciali, che stanno scontando la loro pena, nel braccio di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, trattandosi di uomini dal passato sciaguratissimo, in cui erano stati mafiosi o camorristi, e avevano compiuto efferati omicidi e anche organizzato grossi traffici di stupefacenti.
Sono loro stessi a parlarcene, mentre si presentano a noi, protagonisti di uno spettacolo prodigioso, di cui possiamo seguire la nascita e lo svolgersi.
In questo modo entrariamo in quel carcere e vediamo il backstage degli “attori”, il loro tempo vuoto en attendant Godot, fissando il soffitto dal letto su cui passano ore interminabili, fino alla fine della pena, che è di decenni o che è per sempre.
L’angoscia claustrofobica di questa condizione è sottolineata dagli spazi angusti, dai tortuosi corridoi in cui si muove la popolazione carceraria, dallo scatto secco degli spioncini che vengono chiusi dopo ogni rientro nelle celle, dalle finestre colle sbarre, da cui non filtra molta luce, dai cattivi odori che, anche se non si sentono, vengono evocati durante le prove della recita.
Sembrerebbe un film di genere, un film carcerario, ma non è così: non perdiamo infatti mai la coscienza che quello che vediamo è la realtà quotidiana di questi uomini, così come comprendiamo sempre con chiarezza che questi assassini, rapinatori, spacciatori rimangono uomini, nonostante la colpa, di cui ora pagano il fio.
La fiducia nella loro umanità era stata alla base del progetto, portato avanti negli anni dal regista teatrale Fabio Cavalli (indispensabile contatto dei fratelli Taviani per questo film), il quale aveva allestito con i reclusi molte letture dantesche, scommettendo sulla possibilità di far emergere quella coscienza di sé che nasce quando si ha l’occasione di raffinare il proprio sentire, grazie anche alla meditazione dei grandi classici, poiché la violenza, gli impulsi primordiali, comuni a tutti gli uomini, si possono disciplinare (o – come direbbe Freud – sublimare), attraverso un percorso catartico di riflessione e di educazione della sensibilità e del cuore.
La proposta di un lavoro più complesso, quale la messa in scena di uno spettacolo teatrale – e quale! – , con i sacrifici che avrebbe comportato, in termini di studio e di prove, era stata accettata favorevolmente dai detenuti ed era diventata per i registi l’occasione di un felicissimo ritorno a fare cinema.
L’impronta del cinema d’autore è nel predominante bianco e nero delle scene, che si alterna talvolta al colore squillante dei rari ricordi felici dei carcerati, a quello dei momenti di gioia collettiva per la riuscita dello spettacolo, o ai bellissimi quadri della rappresentazione che visivamente sembrano evocare molta pittura di David. Particolarmente importanti ed emozionanti sia la scelta della lingua dialettale, quella più comunemente usata e compresa dagli attori e dal loro pubblico, sia l’attenzione ai momenti di crisi, quelli in cui il testo famoso diventa quasi l’eco del sentire individuale degli interpreti: tale e tanta è la sua verità, che si era resa necessaria più di una pausa, affinché la loro esperienza dolorosa potesse essere giustamente distanziata, come è necessario a chi vuole recitare davvero.
Si esce molto emozionati da questa visione, catartica davvero per tutti.
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