Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Un piccolo film non esente da difetti e lacune, ma che si riallaccia abilmente al periodo maggiore della filmografia dei Taviani, gli anni 70. A quei tempi, i fratelli toscani erano autori di punta del nostro cinema, a cui diedero un importante contributo nel genere politico-allegorico in voga all’epoca in tutta Europa (Jancso, Anghelopoulos e molti altri). Si ripercorreva un episodio storico per alludere al presente, con una tecnica che combinava affabulazione e distacco brechtiano. In “Cesare deve morire” (un titolo che è già, di per sé, una metafora), i Taviani compiono un’operazione simile, con una differenza sostanziale: alla distanza temporale della Storia sostituiscono quella estetica della rappresentazione. In pratica, non è più il passato che parla a nome del presente, ma il teatro/arte/finzione (il Giulio Cesare di Shakespeare) che fa emergere i nodi cruciali del presente dei personaggi (detenuti a Rebibbia, in procinto di allestire una recita) e della loro condizione socio-politica.
In tal senso, il film dei Taviani che più si avvicina a questo è forse “San Michele aveva un gallo”, allegoria della spaccatura in seno alla Sinistra italiana degli anni 70, ambientata nell’800. Anche in questo caso il discorso è politico, ma certamente meno ideologico e più umanistico: il tema di fondo è la libertà, in senso astratto. Libertà da un tiranno, da un “padre padrone” (figura segnatamente tavianiana), da un Cesare che impersona l’oppressione, il potere, la forza che tiene imprigionato ogni possibile dissenso. Ma Cesare può anche essere letto come metafora in senso opposto, vale a dire: una figura tradita e punita per la sua eccessiva e scomoda ambizione, quasi a simboleggiare i sogni proibiti dei carcerati, che con la loro recita si illudono di potere riconquistare la libertà perduta. Ancora: la battuta in cui Bruto si strugge per essere costretto ad uccidere fisicamente una persona (Cesare) quando invece gli basterebbe estirparne il Male che guida le sue azioni è una efficace metafora della differenza fra una Persona (presa in sé e per sé) e il ruolo sociale (anche criminale) che il Sistema le ha riservato. Peccato però che tutte queste letture non si compenetrino in una visione lucida, ma rimangano monche e sparpagliate: è senz’altro il tallone d’Achille del film, che gli impedisce di qualificarsi come il capolavoro che avrebbe potuto essere. In questo senso, qualche sottotitolo in più nelle parti recitate in dialetto non avrebbe guastato.
Resta comunque un’opera valida, preziosa, stimolante, dove i Taviani confermano ancora una volta di saper unire sapientemente una (fin troppo) evidente vena militante con momenti di pura creazione stilistica, volta a straniare e a caricare di significati le singole sequenze: i passaggi dal bianco-nero al colore, lo slittamento da un dimensione rappresentativa all’altra (cenni di documentario, provino individuale, teatro filmato, prove di teatro, cinema: bello il momento in cui la soggettiva di un fantasma sorprende Bruto alle spalle, dove l’abbandono di un registro teatraleggiante in favore di uno prettamente cinematografico manifesta tutta l’adesione degli autori al personaggio), lo sfruttamento ingegnoso dello spazio scenico (le grate, le recinzioni, i cortili, le celle, le finestre della prigione) e del sonoro (le voce immaginate del popolo romano, che si odono dall’interno di una cella), la dialettica fra le congiure storiche e gli screzi fra i carcerati. Ma soprattutto, il film vale come testimonianza della forza della cultura come mezzo di riscatto morale, intellettuale, sociale.
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