Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Uno dei maggiori attori italiani ha dichiarato che troppo spesso si va a teatro in Italia per vedere «depressi a foglio paga»: per i protagonisti di Cesare deve morire, invece, la possibilità di calcare le scene è un momento di vitalità. La depressione li assale quando ritornano nello celle di Rebibbia dove scontano pene per alcuni senza fine. Sarà per questo che le loro battute suonano di disperazione ed euforia, di rabbia e liberazione, come se scaturissero da uno spazio tenuto sotto pressione estrema da un’epoca remota? Quanto lo è la vicenda del più noto regicidio del mondo classico, trasformata da Shakespeare in un esemplare trattato di comunicazione e politica, con Antonio che rovescia la celebrazione della liberazione dalla tirannide di Giulio Cesare nella punizione di una setta di terroristi. In realtà, ai Taviani, e ai loro ergastolani, interessa soprattutto quell’inferno di affetti e sentimenti che deflagrano dal tradimento: l’agguato, la fedeltà insanguinata e il parricidio esemplare che innescano la congiura. Molti di loro devono conoscere bene la criminalità organizzata (la maggior parte è dentro per spaccio) e possedere una prossimità non letteraria con la violenza. Dal bardo di Stratford-upon-Avon, i Taviani prendono anche il trucco dell’Amleto (the play in the play: la recita della recita); dal loro stile, la romanzesca intensità dei volti (Bruto e Cesare, Salvatore Striano e Giovanni Arcuri, più di tutti) e la coreografia dei corpi (che si addensano e si sparpagliano come volatili). La bella musica di Giuliano Taviani (figlio di Vittorio) annega un sax dolente in fiati profondi e tellurici da sfilata imperiale. «Ora questa cella» dice uno dei detenuti dopo la recita «diventa una prigione». Il film, in realtà, è riuscito a trasformarla in qualcos’altro. Il ring dove combattere per dimostrare che nessun reato può privare nessuno di un riscatto. Si esce dal film proprio con questa convinzione: nessun uomo, come diceva Pasolini, può ritenere inferiore a sé nessun altro. La vittoria al Festival di Berlino 2012 – contestata da critici di un Paese che si ritiene oggi superiore a quasi tutti gli altri – è la vittoria, non deprimente, di questa idea, e non solo di questo film scarno e indistruttibile.
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