Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Insolita commistione di cinema e teatro, straordinariamente diretta dai fratelli Taviani. La lettura più superficiale riflette sulla capacità di uomini socialmente esclusi, come i detenuti della prigione, e permette al film di assumere una dignitisossima posizione di film di grande carica sociale, e che prende i reietti e li rende bravi attori. Questo c'è, ed è la cosa più ovvia, il punto universalmente riconosciuto. D'altro canto, però, il film è soprattutto una riflessione sul teatro, non solo shakespeariano. Non si rispettano le unità di tempo, luogo e azione di Aristotele, certo (ma questo non lo faceva nemmeno Shakespeare), ma ad essere davvero importante è la distruzione e ricostruzione di uno spettacolo, che più ancora che nell'ultima esibizione, è rappresentato in tante scene diverse in tanti luoghi diversi della prigione. Da luoghi sporchi e arruginiti si sprigiona l'arte, viene fuori la libertà. Non importa che siano tutti reclusi: sono liberi e hanno recitato tranquillamente nelle loro varie trasfigurazioni in tutte le sale cinematografiche d'Italia. Sono usciti dalla prigione, hanno viaggiato. Non è messa in dubbio la loro colpevolezza, da un punto di vista giudiziario, certo, e non è neanche questo il problema del film, ma la forza dei Taviani sta nel non farci caso, e nel ricordare che l'arte non è elitaria, e la vera arte è di tutti.
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