Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Fare teatro è essere un altro sé, in un luogo appartato ed improbabile. È fuggire dentro un’identità sospesa, che approfitta dell’alienazione di quella prigione per esprimersi, al riparo dagli occhi del mondo. I detenuti attori di Rebibbia godono di quella inattesa libertà. Isolati dalla civiltà dei ruoli, si tolgono la maschera della normalità per abbandonarsi alla follia di credersi eroi, tiranni, guerrieri. Poveri diavoli, ma con nomi altisonanti ed immortali. Personaggi che parlano il dialetto e passano in un lampo dal pianto alla rabbia, però si chiamano Giulio Cesare, Bruto, Antonio, Cassio e Decio. La loro dura esperienza di vita – maturata nel crimine, nello spaccio, nella violenza – onora, dal basso della sua volgare crudezza, l’universalità di quelle categorie umane, gloriose però meschine, coperte di una fama impastata nel fango. Il capolavoro shakespeariano riproduce, tra le mura di quel carcere, la genesi dell’odio e del dolore, seguendo le sofisticate trame della politica, ma amalgamandosi con la realtà delle emozioni rimaste intrappolate nel vicolo cieco della delinquenza, bloccate dai rimpianti, congelate da rimorsi inespressi. La millenaria voce della tragedia permette, a quegli uomini rinchiusi in un grigio purgatorio, di urlare, finalmente, trovando le parole giuste, ma senza tradire la loro lingua madre, il napoletano, il romanesco, con le intonazioni rubate agli echi delle piazze e dei vicoli immersi nell’ombra. Il laboratorio di recitazione curato da Fabio Cavalli è un esperimento che fa emergere la verità attraverso lo strumento dell’arte, il lasciapassare della finzione che è un canale aperto verso un regno di possibilità infinite, in cui ognuno può entrare per cercare la sua, senza timore di sbagliare. La dimensione della catarsi si colloca al di fuori del tempo programmato, sfuggendo allo schematismo giuridico del prima e del dopo, del delitto e della rieducazione. Davanti all’obiettivo dei fratelli Taviani, le battute dello spettacolo da mettere in scena proseguono, fluidamente, nei discorsi tra compagni di cella, nelle confessioni personali, negli scherzi, nei commenti, negli incisi polemici. Cambiare si può. Basta, d’un tratto, ripartire da zero, da un punto imprecisato di un territorio sconosciuto. Nell’Antica Roma nessuno rischia di incontrare il proprio passato, mentre sono mille i modi di immaginare il proprio futuro. Come uomo che pensa, scrive, inventa e si trasforma. Le frasi imparate a memoria stimolano la fantasia e suggeriscono idee. Vedersi diversi è l’inizio di un percorso che costringe a ricreare la propria concezione di sé. A staccarla dall’abitudine per conferirle una nuova dignità, costruita al ritmo del racconto epico, e al nobile suono della poesia. Le pulsazioni nervose e determinate di una luce interiore scandiscono lo scorrere di una storia girata in bianco e nero, con i toni grigi di un fondale spoglio. I versi di Shakespeare non rispettano i metri e le rime, ma sono comunque decisi palpiti di amarezza, rancore, desiderio di rivalsa, amore tradito, speranza riconquistata. Cesare deve morire è uno sguardo lirico che si fa battaglia. E un’astrazione romantica che fa a pezzi le pietre della rassegnazione.
Questo film, già vincitore del Festival di Berlino 2012, ha rappresentato l’Italia agli Academy Awards.
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