Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
"Da quando ho conosciuto l'arte 'sta cella è 'na prigione."
Questa frase che testimonia la grandezza dell'arte, qualunque essa sia è uno dei messaggi lasciati dall'ultimo film dei fratelli Taviani, artefici di tante opere dal sapore spiccatamente politico( e anche vagamente mattonesco per chi ha esplorato la loro carriera) quando il nostro cinema contava ancora qualcosa e che oggi , ultraottuagenari, si presentano con una nuova opera girata in modo molto più moderno di quello che la loro età e la loro esperienza di lungo corso farebbe presupporre.
Cesare deve morire è comunque un film importante per l'Italia. Dopo oltre venti anni ci ha fatto rivincere un Festival internazionale importante ( l'Orso d'oro a Berlino) ma proprio per la sua estemporaneità, per la sua unicità nel nostro panorama cinematografico è un qualcosa di assolutamente paradigmatico dello stato di catalessi ( speriamo che sia morte solo apparente e non vera come molti affermano) in cui versa il nostro cinema di questi ultimi anni.
La storia è quella di una rappresentazione teatrale del Giulio Cesare di Shakespeare organizzata in un carcere e recitata da un gruppo di detenuti che si ritrovano a fare gli attori portando in scena più loro stessi che il personaggio shakespeariano.
Così ecco un Giulio Cesare in polo Lacoste che afferma la sua posizione gerarchica preminente anche nella realtà del carcere, ecco una rivisitazione del testo dell'immortale bardo usando ognuno il proprio dialetto, ecco l'approccio originale di tutti gli "attori" a personaggi che probabilmente hanno la ventura di conoscere per la prima volta.
L'unica critica che si può muovere è quella di aver forse descritto una realtà fin troppo idilliaca della vita in carcere, in una nazione come la nostra in cui i suicidi di detenuti sono all'ordine del giorno.
Ma descrivere una situazione molto più rosea della media non è assolutamente un delitto, anzi può essere un punto di partenza verso qualcosa di nuovo.
Cesare deve morire con la sua alternanza di bianco/nero e colore( con netto predominio del primo) non è teatro inscatolato in 16/9 ma qualcosa di più caldo e stimolante, è cinema ripulito da tutti gli orpelli, costruito su poche assi malferme di legno ultrastagionato e quattro pareti ammuffite che lasciano traspirare l'odore della propria immutabilità, con una regia volitiva e una macchina da presa che sembra instancabile a donare allo spettatore punti di vista sempre nuovi.
Arduo per chi non è abituato ma una fonte a cui abbeverarsi per chi ricorda la grande stagione del cinema d'autore italiano.
E qui sta tutta la preoccupazione: se questo film dei Taviani, il nuovo di Bertolucci, Bellocchio e pochi altri testimoniano di un ritorno in auge del nostro grande cinema d'autore , dall'altra si nota sempre di più un aumento della distanza tra questo tipo di cinema e l'altro che in Italia non è medio ( cioè confezionato con decenza ma tendenzialmente più vicino al pubblico che alla critica), ma solo assolutamente becero rifilato col taglia e cuci alla fiera del " bbona la prima! ".
Eppure Cesare deve morire non si nutre di astruse formule autoriali e di quella spocchia di tanto cinema da cinefilo snob.
E' costruito con una semplicità meravigliosa, con dei momenti assolutamente straordinari ( i provini in cui ci viene presentata la "compagnia attoriale" oppure anche il finale) e delle perle di saggezza che sfiorano il genio da parte di questi uomini segnati dalla vita e dalla detenzione ( "sembra che questo Shakespeare sia vissuto nelle vie della mia città" ).
Cesare deve morire è per loro un modo per evadere almeno per poco tempo da un'esistenza con i ritmi scanditi da altri.
Dopo la gioia del successo della rappresentazione quello che risuona comunque è il rumore di quella porta che si chiude dietro le spalle di ognuno.
Quel rumore metallico dello scatto della serratura rappresenta il ritorno alla dura realtà.
E con quello c'è lo scivolamento nella malinconia.
(bradipofilms.blogspot.it )
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