Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012, Cesare deve morire è un film-documentario, splendido, che merita in pieno il premio assegnato e a corollario anche quello – meno importante – del David di Donatello come miglior film italiano. Girato dentro il carcere di massima sicurezza di Rebibbia, un gruppo di carcerati guidati da un regista teatrale inscenano il Giulio Cesare di Shakespeare.
Il documento è scritto sulle facce degli interpreti, reali, che si spogliano delle vesti di carcerati per indossare quelle dei personaggi del Bardo. In un bianco e nero feroce gli spazi del carcere si dilatano e si trasformano in luoghi onirici, diventano piazze, vicoli della Roma imperiale, diventano il Senato ove si compie l’eccidio. Un tempo astratto, ipotetico, accoglie la finzione farsi realtà e viceversa, un continuo riversamento di sguardo e di senso che sposta l’ottica tra la condizione di reclusi degli interpreti e la libertà della fantasia che accoglie il loro impegno per portare sul palco l’opera. La libertà è dentro e l’arte è la chiave per farla espandere al di fuori dei confini della percezione. Così come per lo spettatore la percezione della realtà viene continuamente disattesa, giocata sull’orlo degli sguardi, i segni sulle facce, le vibrazioni dei dialetti che impastano il personaggio della persona mutuandone il dolore, la cultura e la colpa per farsi epico. Lo sguardo dei Taviani non collima con quello del regista che dirige le prove teatrali, piuttosto aleggia come un fantasma tra gli spazi angusti recependo umori ed emozioni, mischiando le vicende personali con quelle di fantasia, fino a che le due cose non si fondono in un’unica grandiosa rappresentazione della vita.
Essere qualcosa d’altro, la seconda chance che viene offerta ai carcerati, alcuni condannati all’ergastolo per crimini terribili, è quella di espiare la colpa attraverso la finzione e con essa ambire ad una consapevolezza colma di rimpianti. Dopo tutto la rappresentazione teatrale in sé occupa poco spazio nella narrazione, secca – poco più di 80 minuti - ma quello che importa è concepire la sublimazione di un uomo legato per sempre alla propria condizione di colpa, ad un altro livello, intellettualmente astratto. La consapevolezza dell’aver sprecato l’unica vita a disposizione e grazie all’arte poter viverne un’altra, appagante, vitale, più concreta di quella criminosa. Solo la cultura può elevare l’uomo oltre se stesso elevandolo dai bisogni bestiali e frustranti che generano violenza. “Ora che ho conosciuto l’arte, questa cella mi sembra una prigione”. Finisce così il film, sulle celle che si chiudono alle spalle dei detenuti tornati alla realtà – a colori – e sulle note tristi dei chiavistelli che ricacciano in gola ai protagonisti il crudele grido di libertà che li ha fatti udire un’ultima volta sul palco del carcere.
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