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Trama

All'interno del carcere di Rebibbia, i detenuti in regime di massima sicurezza hanno la possibilità di occupare le loro lunghe giornate partecipando a un laboratorio teatrale che mette in scena, per lo più, le opere di William Shakespeare. Durante le prove e l'allestimento del "Giulio Cesare", le vite degli improvvisati attori si intrecciano inevitabilmente con quelle dei personaggi interpretati, costretti a confrontarsi con temi come il potere, la mancanza di libertà, la colpa e il rimorso.

Approfondimento

I FRATELLI TAVIANI RACCONTANO IL LORO FILM

Cesare deve morire è stato scelto come unico titolo italiano (e unico documentario) in Competizione al Festival di Berlino 2012. La scelta di portare le telecamere all'interno del carcere romano di Rebibbia non è stata casuale a parlare del loro progetto sono direttamente i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1977 con Padre padrone.

LA GENESI DEL PROGETTO

È accaduto tutto per caso. Così come per Padre padrone, nato dopo un incontro con Gavino Ledda. Questa volta la molla è stata una conversazione telefonica con una nostra cara amica che ci ha messo in contatto con un universo che conoscevamo solo grazie ai film americani ma il carcere romano di Rebibbia è molto diverso da quello che avevamo visto sullo schermo. Sin dalla prima volta in cui vi siamo entrati, le atmosfere cupe della vita dietro le sbarre hanno lasciato il passo all'energia e alla frenesia di un evento culturale e poetico: i detenuti recitavano alcuni canti dell'Inferno di Dante. Solo in un secondo momento, abbiamo saputo che si trattava di detenuti della sezione di massima sicurezza, la maggior parte condannati all'ergastolo perché appartenenti alla criminalità organizzata: mafia, camorra, 'ndrangheta. La loro recitazione istintiva era mossa dal bisogno drammatico di raccontare la verità ed era stata incanalata loro dal lavoro costante e continuativo del regista Fabio Cavalli.  Quando siamo andati via, ci siamo resi conto che volevamo sapere qualcosa in più su di loro e sulle loro vite. E già alla seconda visita abbiamo proposto loro di mettere in scena il Giulio Cesare per un lavoro cinematografico. La risposta di Fabio e dei detenuti è stata immediata e semplice: "Cominciamo, subito!". Gli attori in scena sono tutti carcerati della sezione di massima sicurezza. Per essere più precisi, dobbiamo però aggiungere che Salvatore "Zazà" Striano, il nostro "Bruto", ha finito di scontare la pena a Rebibbia. Originariamente condannato a 14 anni e 8 mesi, dopo 6 anni e 10 mesi e un'amnistia, adesso è un cittadino libero, così come "Stratone", Fabio Rizzuto. L'unico "estraneo" al carcere è Maurilio Giaffreda, uno degli insegnanti di recitazione. Per quanto riguarda le audizioni, abbiamo adottato un metodo semplice ma efficace: abbiamo chiesto agli "attori" di interpretare loro stessi, come se fossero sotto interrogatorio da parte dei funzionari; poi, abbiamo loro chiesto di mettere in scena un addio a una persona amata, tirando fuori tutta la rabbia e il dolore che conoscevano. Una mano ci è stata data dalle pre-audizioni di Fabio Cavalli, che ci ha mostrato le fotografie di coloro che aveva già scelto senza bisogno di ulteriori provini. A chi ha sostenuto il provino, per rispetto della privacy, abbiamo anche proposto la possibilità di usare identità fittizie ma siamo rimasti colpiti dalle risposte: tutti hanno preteso di recitare con il proprio nome, fornendo ogni loro generalità, compreso il nome dei genitori o il luogo di nascita. Dopo un po', abbiamo capito che il film per loro era un modo di omaggiare e ricordare nel silenzio del carcere le persone più importanti della loro vita. Osservandoli uno ad uno, attraverso la cinepresa, abbiamo imparato a conoscere e capire le loro sofferenze e le loro vere nature.

LA SCENEGGIATURA E LA SCELTA DEL GIULIO CESARE

Come facciamo con tutti i nostri lavori, avevamo una sceneggiatura da seguire. Una volta sul set, a contatto con le interpretazioni, la sceneggiatura però prendeva pieghe inaspettate, dettate dal luogo o dalle luci e ombre. Con tutto il rispetto per Shakespeare — che per noi è sempre stato un padre, un fratello e adesso, con l'avanzare dell'età, un figlio -, noi siamo andati oltre il suo Giulio Cesare, decostruendolo e riscrivendolo. Ne abbiamo mantenuto inalterato lo spirito originale da tragedia, così come la narrazione, ma allo stesso tempo lo abbiamo semplificato adattandolo ai tempi di una rappresentazione da palcoscenico. Noi abbiamo cercato di costruire quell'organismo audiovisivo che chiamiamo cinema e che è al contempo figlio degenere di tutte le arti che lo hanno preceduto: un figlio degenere che Shakespeare avrebbe sicuramente amato!  Cavalli, poi, è stato estremamente efficace nel tradurre tutti i versi adattandoli ai vari dialetti parlati dai nostri detenuti-attori. Ha capito ciò che volevamo realizzare e ha costruito una rappresentazione ipnotizzante, con diversi gradi di emozioni e coinvolgimento. Grazie agli attori e alle verità che esprimevano con le loro performance inattese, la sceneggiatura si è evoluta. Per esempio, la scena dell'indovino, del napoletano "Pazzariello", che porta il palmo della mano aperta al naso e con fare inquietante invita il pubblico a tacere, non era nella sceneggiatura. Ma, quando glielo abbiamo visto fare per la prima volta, ci ha ricordato uno dei personaggi sopra le righe di Shakespeare, Yorik ad esempio, uscito direttamente fuori dalle sue tragedie: un omaggio dal genio implicito in ognuno di noi. La scelta del Giulio Cesare è nata anche dalla necessità di avere a che fare con uomini dal passato ancora in sospeso, fatto di misfatti, errori, reati, crimini e relazioni interrotte. Una storia potente che ci permetteva di mettere gli "attori" di fronte alle loro esperienze andando in direzione opposta rispetto alle loro vite. Il nostro Giulio Cesare cinematografico esplora piccole e grandi tematiche inerenti alle relazioni dell'essere umano, come l'amicizia, il tradimento, la libertà, il potere e il dubbio. E anche l'omicidio. Molti dei detenuti sono stati "uomini d'onore", citati anche da Antonio in un suo discorso. Il giorno in cui abbiamo girato la scena dell'assassinio di Cesare, abbiamo chiesto ai nostri attori armati di pugnale di ritrovare dentro di loro l'istinto omicida. Subito dopo, abbiamo realizzato quello che avevamo appena detto e volevamo rimangiarci tutto ma non è stato necessario: ognuno di loro non aspettava altro che confrontarsi con la sua realtà e affrontarla. In seguito a quella circostanza, abbiamo deciso di seguirli giorno e notte, entrando con loro nelle piccole celle in cui convivono 5 persone, andando nei corridoi o nel cortile durante le ore di aria, aspettando nelle sale di attesa l'arrivo dei loro cari.

L'USO DEL DIALETTO

Nei mesi che hanno preceduto le riprese, ci siamo recati spesso a Rebibbia. Durante quelle visite, abbiamo attraversato i diversi reparti dell'area di massima sicurezza e, attraverso le porte socchiuse, potevamo notare i detenuti — giovani o vecchi che fossero — sdraiati in silenzio nei loro letti a fissare il soffitto. "Dovrebbero chiamarci i guardiasoffitti, dato che passiamo metà delle nostre lunghissime gionate a fissare il soffitto", ci dissero con poche parole mentre noi passeggiavamo liberamente per i corridoi, tanto che per giorni siamo stati assaliti dai sensi di colpa. Una mattina, invece, in una delle celle più grandi abbiamo scoperto qualcosa che ci ha fatto sorridere per lo stupore e la complicità venutasi a creare: un gruppo di sei o sette detenuti erano alle prese con la lettura di un testo posto al centro del tavolo intorno a cui erano seduti. Solo in un secondo momento, ci hanno detto che quel testo era la nostra sceneggiatura e che quelli erano detenuti nostri attori che stavano traducendo con l'aiuto di altri detenuti, non scelti per il film, la nostra sceneggiatura nei loro diversi dialetti: siciliano, napoletano, pugliese...

Tutto il lavoro è stato poi supervisionato e integrato da Fabio Cavalli e Cosimo Rega, il nostro Cassio.

Ecco, questo aneddoto vi aiuta a capire il perché della nostra scelta. Anche ascoltando i provini, eravamo rimasti felicemente sorpresi di ascoltare i battibecchi di Prospero e Ariel in napoletano o Romeo e Polonio sussurrare e gridare in siciliano o pugliese. Ci siamo resi conto che le storpiature dialettali non sminuivano i toni della tragedia ma al contrario si prestavano particolarmente a una nuova verità, creando una profonda connessione tra l'attore e il personaggio interpretato attraverso l'uso di un linguaggio comune che permette di seguire con maggiore facilità lo svolgimento del dramma, che dopotutto in Shakespeare ha anche un forte aspetto popolare. Di conseguenza, non siamo stati noi a scegliere l'uso dei dialetti ma i nostri attori che hanno preso il sopravvento sulla sceneggiatura e l'hanno adattata al loro essere, alla loro natura.

GIRARE IN CARCERE

Tutto il film è girato a Rebibbia. Vi abbiamo trascorso quattro settimane, in cui entravamo all'alba e uscivamo a notte fonda, felici e soddisfatti di quanto stavamo facendo: un giorno abbiamo realizzato che stavamo girando questo film con la stessa incoscienza sfacciata dei nostri primi lavori.

Le nostre videocamere hanno avuto libero accesso, potevamo portarle ovunque: reparti, celle, scale, cortili, corridoi, biblioteca. C'è stato impedito solo l'ingresso nell'unica area off limits del penitenziario, gli ambienti in cui si trovano i detenuti in stato di isolamento e sotto protezione. Nessuno può vedere i loro volti e, ovviamente, neanche noi. Dall'esterno, una guardia ci ha mostrato le finestre delle celle dei "voltagabbana", immerse in un silenzio profondo.  Abbiamo sospeso le riprese solo quando i detenuti di altri reparti dovevano attraversare i corridoi per raggiungere il cortile durante le ore di aria, sotto le docce o quando i nostri attori venivano chiamati a colloquio con i familiari. Ogni volta che tornavano dagli incontri con i parenti, rientravano scossi, amareggiati, e i loro sguardi divenivano distanti, perdevano la loro spontaneità per la recitazione.

Il set di un film è anche il luogo in cui nascono e si rafforzano rapporti di amicizia e complicità. Il set di Cesare deve morire non è stato da meno. Una delle guardie ci aveva borbottato: "Non state troppo vicini a loro. Ho ottimi rapporti con molti di loro, a volte provo compassione e pietà e li sento anche amici... ma poi devo impormi di mantenere le distanze e pensare a coloro che soffrono e che hanno sofferto più di loro, alle loro vittime e alle loro famiglie". Nonostante ciò sia vero, quando abbiamo finito di girare il film, lasciare il carcere e i nostri attori è stato un addio straziante. Salendo le scale per tornare in cella, Cosimo Rega ha alzato le braccia e ci ha gridato: "Paolo, Vittorio... da domani, niente sarà più lo stesso!"

IN BIANCO E NERO

Abbiamo scelto di girare in bianco e nero perché il colore è realistico mentre il bianco e nero non lo è. Può sembrare una dichiarazione altisonante ma, per il nostro film, in parte è così. Una volta all'interno del carcere, ci siamo resi conto che c'era il rischio di cadere nel realismo televisivo e per evitarlo ci siamo rifugiati nel bianco e nero, che ci ha fatto sentire più liberi di inventare e di girare in quel set inusuale che è Rebibbia, dove Cesare non è stato ucciso per le vie della Roma antica ma nel cortile in cui i detenuti passano il loro tempo all'aria aperta. Con il bianco e nero, ci siamo sentiti più liberi nel girare in una cella il monologo con cui Bruto ripete ossessivamente "Cesare deve morire". Abbiamo optato per un bianco e nero molto forte che esplode nel colore solo sul palco per esaltare l'immensa gioia dei detenuti, sopraffatti dal successo che hanno riscosso.

Ma il bianco e nero è stata anche una scelta artistica dettata da ragioni narrative: abbiamo voluto sottolineare il passare del tempo, un salto all'indietro in maniera semplice e diretta. Siamo consapevoli che non si tratta di una scelta innovativa ma a volte ci piace percorrere sentieri già battuti da altri.

Note

Dal bardo di Stratford-upon-Avon, i Taviani prendono anche il trucco dell’Amleto (the play in the play: la recita della recita); dal loro stile, la romanzesca intensità dei volti (Bruto e Cesare, Salvatore Striano e Giovanni Arcuri, più di tutti) e la coreografia dei corpi (che si addensano e si sparpagliano come volatili). La bella musica di Giuliano Taviani (figlio di Vittorio) annega un sax dolente in fiati profondi e tellurici da sfilata imperiale. «Ora questa cella» dice uno dei detenuti dopo la recita «diventa una prigione». Il film, in realtà, è riuscito a trasformarla in qualcos’altro. Il ring dove combattere per dimostrare che nessun reato può privare nessuno di un riscatto.

Trailer

Commenti (7) vedi tutti

  • Sono passati quasi dieci anni dalla sua uscita, ma il film proprio in questi giorni è tornato di bruciante attualità, poiché la gravità della pandemia ha fatto riemergere la questione del trattamento dei condannati alla reclusione carceraria, anche in vista del loro umano ricupero e reinserimento sociale.

    leggi la recensione completa di laulilla
  • Al confine tra finzione e documentario, i fratelli Taviani riesumano il Giulio Cesare di Shakespeare all'interno degli ambienti inospitali e decadenti del carcere di Rebibbia in un film geniale e coraggioso, che valorizza l'arte come strumento di riscatto sociale per i detenuti, ammirevoli interpreti dell'opera. Fotografia e musica affascinanti. 8

    leggi la recensione completa di rickdeckard
  • Il primo premio è stato l'Orso d'oro al Festival di Berlino 2012, premio che non vinceva l’ Italia dal 1991, con ‘la casa del sorriso’ di Marco Ferreri. Poi ‘Cesare’ è stato candidato a 8 David di Donatello 2012 e ne ha vinti 5, compresi quelli per miglior film e miglior regista. Dopo aver vinto due nastri d’argento, il 26 settembre 2012...

    leggi la recensione completa di marco bi
  • L'idea di fondo e' particolare ed anche sensibilmente interessante ma la messa in scena non e' cosi' "appetitosa" come potrebbe sembrare leggendo la Trama.voto.5.

    commento di chribio1
  • Miracolo di pathos, per un film che veleggia sospinto da un bianco e nero potentissimo e da un sax ipnotico.

    commento di emil
  • Buon film dei fratelli Taviani da vedere

    commento di antonio de curtis
  • Si fa apprezzare per l'ambientazione decisamente particolare e per la bravura e la personalità degli interpreti.E CHE DIRE DEI FRATELLI !!!

    commento di fralle
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Recensioni

La recensione più votata è positiva

maghella di maghella
8 stelle

E' molto difficile per me scrivere un'opinione su “Cesare deve morire”, un film che mi ha molto emozionato, mi ha lasciata commossa per molto tempo dopo la visione, e mi ha trasmesso un senso di desolazione profonda. Non è la prima volta che teatro e cinema si fondono insieme, ma è la prima volta che sul grande schermo viene raccontato un progetto di laboratorio teatrale… leggi tutto

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John Nada di John Nada
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I Fratelli Taviani, che oramai apparivano da tempo buoni unicamente per le celebrazioni del loro cinema passato, hanno sorpreso un po' tutti, prendendo la logora idea di riprendere del teatro carcerario e modellarlo in una forma anche molto attraente, ma in realtà molto curata e approfondita, niente affatto superficiale, camuffandola da semi-documentario, intitolato “Cesare deve… leggi tutto

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scandoniano di scandoniano
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