Regia di Marius Holst vedi scheda film
Bastøy, isola norvegese sita tra le gelide acque del fiordo di Oslo, dal 1900 al 1953 è stata sede del Bastøy Boys' Home, un riformatorio per minori con difficoltà di adattamento e problemi comportamentali controllato dalla chiesa di stato (protestante) con la supervisione del Ministero dell'Istruzione, che si proponeva l'obiettivo di (ri)educarli per restituire alla società civile dei buoni cristiani. Nel 1915 l'istituto fu teatro di una rivolta per sedare la quale il governo inviò nientemeno che l'esercito: a questo episodio si ispira King of Devil's Island, un solido ed emozionante racconto di formazione in ambiente carcerario che parla di repressione e di ribellione, di rabbia e di libertà, ma anche di amicizia e di solidarietà.
«In quest'isola non c'è passato né futuro, ma solo il presente», spiega il direttore ad Erling, l'ultimo arrivato, non prima di avergli comunicato la sigla che andrà a sostituire il suo nome: "C-19", dove la lettera identifica la cella condivisa cui è destinato, ed il numero è il primo disponibile in ordine progressivo. Spersonalizzazione, dunque, ma anche cieco asservimento: sono queste le linee guida seguite per normalizzare i 'disadattati' reclusi, attraverso una violenza psicologica costante, sistematiche pene corporali, ed il ricorso, a fini punitivi e dimostrativi, a lavori di fatica di manifesta inutilità. Ne sa qualcosa Olav — o meglio "C-1" — il veterano del gruppo, investito dell'onere di mantenere l'ordine tra i compagni e giunto ormai a due sole settimane dalla meta dopo sei lunghi anni passati a chinare il capo per espiare la colpa di un furtarello in chiesa compiuto all'età di undici. Ma Erling (che invece si vocifera sia lì per aver commesso un omicidio) non ha proprio alcuna intenzione di farsi sottomettere: lui non sa leggere, ma ha una ragazza là fuori a cui vorrebbe scrivere, e alla quale aveva detto di assentarsi per un viaggio in mare più lungo del solito a bordo della baleniera su cui fa l'arpionatore. Erling vuole solo fuggire, e poco importa se nessuno c'è mai riuscito prima. Lui è il re di Bastøy (Kongen av Bastøy, come recita il titolo originale), lui è l'elemento di rottura venuto a scardinare dall'interno un sistema basato sul terrore, lui è il fulcro di una storia che parte proprio dal suo inserimento nell'istituto per terminare con la sua ultima fuga, testimoniando nel mezzo i suoi iniziali scontri coi compagni oltre che coi controllori, il rapporto di crescente complicità che istaura con Olav, e l'istinto di protezione che lo porta a difendere Ivar — alias "C-5", nuovo entrato come lui ma di gran lunga il più debole del lotto: perché dall'altra parte della barricata c'è chi, dall'alto della propria autorità, ne ha fiutato impacci e difficoltà trasformandolo in preda, perpetrando, al riparo da occhi indiscreti, la forma più vile e crudele di abuso, contando sul suo silenzio timoroso e su quello assai meno innocente di chi dietro pomposi richiami al rigore morale cela un'altrettanto rigorosa devozione al dio denaro.
Epico, coinvolgente e tragico, King of Devil's Island è il risultato di un affiatato lavoro di squadra, dove la regia incalzante ma misurata di Marius Holst e la fotografia mobidamente fredda di John Andreas Andersen sono perfettamente in tono con la sceneggiatura scritta da Dennis Magnusson partendo dalla storia che Lars Saabye Christensen e Mette Marit Bølstad hanno tratto romanzando i fatti reali, e dove lo scontro generazionale che si consuma all'interno del carcere minorile produce splendide scintille sul versante attoriale, con da un lato il sempre rigoroso Stellan Skarsgård nel ruolo del direttore — onnipotente portatore sano di moralità — ed il convincente Kristoffer Joner in quello del subdolo e sgradevole signor Bråthen, e dall'altro gli effettivi protagonisti, due giovani leve che danno una gran prova di intensità drammatica: Benjamin Helstad (nella parte dell'istintivo Erling) e Trond Nilssen (in quella del riflessivo Olav).
Ironia della sorte, la struttura che fino al 1953 ha ospitato il Bastøy Boys' Home è oggi sede di un raro esempio di carcere di minima sicurezza, una prigione a cielo aperto in cui i detenuti alloggiano in case di legno, lavorano la terra avendo accesso a coltelli seghe ed asce, e nel tempo libero possono praticare sci di fondo, tennis ed equitazione, oppure far due passi fino alla spiaggia per una nuotata.
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