Regia di Daniele Vicari vedi scheda film
Un unico gesto, casuale, scandisce i frammenti di tre destini ben diversi, destini che non hanno un nome proprio, ma solo un nome comune: Diaz.
Un unico gesto, simbolico, testimonia come finanche un piccolo atto di violenza possa rivelarsi sufficiente ad innescare la miccia di un’esplosione di violenza enormemente maggiore; enormemente ignobile.
Solo una bottiglia vuota scagliata nel vuoto… una bottiglia vista da diverse angolazioni ma che ha portato a un’unica conseguenza (diomede917).
Un’infamia; ripetuta ancora (i falsi pretesti) ed ancora (i depistagli) ed ancora (le progressioni di carriera di carriera)…
Perché va bene la presunzione di non colpevolezza, ma qui siamo ai livelli dell’odiosa supercazzola più che del sacrosanto principio di diritto di cui all’art. 27 Cost.
E Vicari parrebbe subire la malia della prima (facendo credere di omaggiare il secondo).
Diaz, infatti, pare un film privo di una precisa identità.
Come sospeso fra l’eccesso di spettacolarizzazione della violenza (che poi è un altro modo per descrivere l’assurdità della realtà) ed un eccesso di prudenza (rispetto alla denuncia vuoi di fatti ancora più crudi, vuoi di “dinamiche decisionali” di più vaste dimensioni) il film ha il (non raro) pregio di dividere il pubblico: stordisce (ed accontenta) i lontani (gli spettatori esteri) e gli assenti (chi in questi anni non aveva l’età della ragione, o non aveva gli strumenti per capire, o aveva voltato la testa dall’altra parte), ma non convince i coscienti. Ovvero chi avrebbe auspicato ancora più temerarietà. Un’univoca attribuzione di responsabilità.
Diaz – Don’t clean up this blood raccoglie esattamente quel che semina: emozioni forti quanto contrastanti.
Solo allusioni di una Genova messa a ferro e fuoco, ma sul punto di vedere la fine del tunnel (il G8 si sarebbe concluso l’indomani).
Solo allusioni confuse (ed un po’ superficiali) alle “cause” dell’irruzione (il che, a ben vedere, non è affatto un male atteso che non è accettabile la pretesa di dovere necessariamente anteporre, alle “conseguenze”, l’esposizione di una o più “cause” o, comunque, una causa diversa e più “fondata” di quella che appare nel film - il lancio della bottiglia - come se la violazione dei diritti umani più sacri e inviolabili possa mai trovare una giustificazione veruna. Assurdo pensarlo, ma ancora più assurdo è credere che tale giustificazione possa provenire da coloro che detengono il potere immenso di ricorrere legittimamente all’uso della forza).
Nessuna allusione alle conseguenze immediate ed a quelle successive (atteso che non possono considerarsi esaustivi i minuscoli titoli di coda).
Descrive un solo fatto (e le sue più strette “pertinenze”) fra conati di violenza estrema ed autoimposte restrizioni di scrittura.
Un film riuscito solo in parte, dunque?
Forse, ma non importa.
Perché Diaz - Don’t clean up this blood raggiunge quantomeno l’obiettivo di ricreare il clima di terrore vissuto a Genova (tanto che a volte non si nota la differenza fra immagini di repertorio e finzione: panunzio).
Perché Diaz - Don’t clean up this blood è un atto morale. È la necessità della memoria che si incarna nella perennità della pellicola (gabricocchi). È un bisogno collettivo che un pregevole spirito di documentazione traduce in un registro corale in cui il protagonista è un paese che ha perso ogni forma di dignità (gabricocchi).
Una testimonianza filmica che - in quanto resa prima che la Corte di Cassazione certificasse (con una sentenza che ha rigettato taluni dei ricorsi degli imputati già condannati per diversi reati contro la p.a. e contro la persona), in maniera definitiva ed incontrovertibile, tutta la cruda verità della “macelleria messicana” (http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/penale/primiPiani/2012/10/diaz-le-motivazioni-sconsiderata-violenza-italia-screditata-nel-mondo.php) allora consumata (e maldestramente, e vergognosamente, camuffata) - denota per certo un coraggio sufficiente a farle meritare tutto il rispetto e l’apprezzamento possibile.
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