Regia di Daniele Vicari vedi scheda film
Al netto di tutte le considerazioni, Diaz è un film notevole. Mettendo il silenziatore alle inevitabili polemiche e puntualizzazioni, Vicari ha realizzato un’opera la cui tenuta emotiva e spettacolare è davvero encomiabile (e chi non è stato a Genova si cerchi le immagini realizzate da Andrea Pastor per avere un’idea del sapore di quei giorni). Nessuna traccia del pauperismo da volontariato tipico del cinema politico italiano. E, soprattutto, zero riduzione di complessità. Risultato: un robustissimo thriller metropolitano nel quale confluiscono il Castellari di I guerrieri del Bronx, echi del Carpenter di Distretto 13. Le brigate della morte e di 1997. Fuga da New York, tracce di Costa-Gavras e di Petri. Vicari, che deve avere penato non poco per mandare in porto il suo film, non si fa ricattare dall’enormità dell’impresa. Senza contare che montare la produzione deve essere stato un incubo. Diaz è senz’altro il miglior cinema realizzato da Vicari insieme alla prima parte di Il passato è una terra straniera, diretto con mano solidissima (citazione obbligatoria per l’apporto maiuscolo di Gherardo Gossi e Teho Teardo). L’intreccio polifonico delle voci e delle lingue, l’intarsio di archivio e ricostruzione, la complessità del reale, tutto concorre a fare di Diaz un esito importante. Rispetto al cinema politico di una volta, Vicari si muove a tutto campo: ciò che conta è il racconto e non le ricette precotte. Controcampo dell’incompreso Acab. All Cops Are Bastards, Diaz, con Romanzo di una strage è l’assalto della Settima Arte al resto del tempo. Non una nuova primavera, ma solo l’indizio di un cinema che vorremmo trovare più spesso in sala. Perché Diaz è, a conti fatti, il nostro Fragole e sangue.
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