Regia di Daniele Vicari vedi scheda film
Per me un’opera importante, fondamentale e necessaria. Trovo Diaz un film teso e appassionato, privo di ogni possibile deriva retorica. Nelle mani di Vicari la cinepresa diventa uno strumento etico ed estetico di particolare pregnanza penetrativa che dà una rappresentazione lucida e precisa della violenza e della degenerazione dell’animo umano.
Fino a quando non ho letto gli atti del processo, avevo anch'io interpretato i fatti di Genova in senso politico, come la repressione di un movimento che si oppone a un sistema. Il che rientra anche in una certa logica, io mi ribello, lo Stato mi combatte. Ma quello che è accaduto lì dentro va ben oltre, riguarda la perdita della dignità di essere umano. (Daniele Vicari)
Il 21 luglio del 2001 con i suoi atti di terribile violenza, è una data che segnerà per sempre questa nostra povera Italia col marchio indelebile dell’infamia.
Un’Italia dove da troppo tempo – che lo si voglia ammettere o no, perché tutto è cominciato molto prima - è praticamente in atto una “sospensione” evidente e prolungata della democrazia, della libertà, del rispetto dei diritti, dell’eguaglianza sociale, della difesa dei più deboli (e chi più ne ha più ne metta) tollerata e accettata con l’inerte passività dell’ignavia di tutti noi, o per lo meno della stragrande maggioranza che ha appoggiato e supportato quei sinistri personaggi anche istituzionali protagonisti degli scurrili balletti televisivi che consentono loro di prenderci per i fondelli oltre “ogni ragionevole dubbio”, e che ha votato anche dopo quei “fatti” così chiari ed evidenti – le “criminogene” e non veritiere dichiarazioni di Scajola, Fini e il Berlusca erano una prova lampante di una responsabilità “mandataria” delle più alte sfere del potere centrale che non doveva più farci nemmeno dubitare - quei governanti “infedeli” che hanno più che permesso - il che sarebbe già gravissimo - “ispirato”, o peggio ancora programmato scientemente a tavolino, una simile barbarie che non è la sola imputabile alla loro repressività ideologica e comportamentale.
Potrei considerarli quei fatti semplicemente la punta dell’iceberg allora, perché analoghe ignominie (a partire da Portella della Ginestra) si sono consumate anche prima e si continuano a praticare persino adesso dalle nostre parti (a volte in maniera meno cruenta e feroce, almeno in apparenza, ma ugualmente condannabili). Se qualcuno avesse voglia di confrontarsi con un’altra disturbante opera come Mare chiuso di Segre purtroppo accolta dal silenzio pneumatico di pochissime sale semideserte, si renderebbe infatti conto che non abbiamo riservato sorte migliore - per altre ragioni e in altro contesto ovviamente - a quell’umanità disperata che ha il solo torto di aver la pelle di un altro colore che abita l’atra sponda del Mediterraneo, cittadini somali ed eritrei che dopo aver attraversato il deserto per sfuggire alla guerra e alla povertà sfidando le repressioni delle istituzioni libiche, arrivati in prossimità delle coste siciliane dove speravano di trovare una qualche concreta risposta ai loro giusti bisogni, sono stati invece tutti respinti senza pietà e selezione, nelle mani “dell’amico Geddaffi” che regala vestiti e uniformi per il burlesque nostrano (un’altra ignominia troppo poco considerata), donne incinta e neonati inclusi. La valutazione di un’ipotesi più che ragionevole che si dovesse accordare ad almeno una parte di loro l’asilo politico previsto dai regolamenti (non solo nazionali, ma anche europei) per i dissidenti accertati che fuggono dalle persecuzioni della tirannia e della guerra non è stata nemmeno presa in considerazione come ben sappiamo e solo in pochi si sono indignati per questa scellerata pretesa leghista. Così, senza nemmeno adeguata “assistenza, sono stati rimandati in blocco nella terra da cui erano partiti, fregandosene della loro sorte, e costringendoli a un disumano calvario durato ben due anni (e finito soltanto per lo scoppio della guerra in Libia) fatto di soprusi e sofferenze tra carcere e sevizie inaudite non dissimili (o persino peggiori) da quelle perpetrate nella caserma di Bolzaneto (ed è solo un esempio fra i tanti, Rosarno compreso).
Se ci guardiamo intorno infatti, dovremmo mettere in conto anche le infamie degli attuali centri di accoglienza “carceraria” riservata proprio agli immigrati in attesa di identificazione certa (magari in futuro potremmo sempre fare come i tedeschi e dire che “non sapevamo” dell’esistenza di questi piccoli lager di riporto e sentirci così a posto con la nostra coscienza di cristiani che hanno però smarrito per strada il senso e il valore della condivisione e della fratellanza).
Torniamo comunque ai fatti di Genova del 2001 (o per meglio dire alla più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale - Amnesty International), perché è di quelli che dobbiamo parlare,e riconosciamo il merito a Daniele Vicari e a chi lo ha caparbiamente sostenuto in un’impresa tanto titanica, di averci “regalato” questa straordinaria opera che ha il pregio di riportare a galla ciò che già “dovevamo sapere”, considerando la copiosa documentazione anche visiva che avevamo a suo tempo ricevuto in diretta, ma che evidentemente era stata poi archiviata dai più quasi come se niente di illegale fosse davvero accaduto in quelle cruente giornate di Genova (la maggioranza degli italiani si sa, ha la mente corta e invece di coltivare la memoria e trarne lezioni appropriate, preferisce sollazzarsi in altri più dilettevoli occasioni di “svago”, visto che da tempo si è fatta fottere il cervello e non si è nemmeno soffermata a riflettere che anche in questo caso – al di là dei mandanti che purtroppo sono sempre protetti e “inaccertati” quale regola ormai inoppugnabilmente “certa” – nessuno degli esecutori materiali di quella macelleria messicana ha pagato il fio penale o ha semplicemente subìto sacrosante “rimozioni” o esoneri – le uniche “variazioni” di ruolo sono state semmai quelle di una “promozione” - il che la dice lunga anche sul fatto che quegli “integerrimi poliziotti e funzionari” sono ancora attivamente presenti con la loro ferocia squadrista nelle fila di chi “dovrebbe difenderci” se ancora qualcuno ci crede davvero in questa loro prioritaria funzione di protezione dell’ordine che non sia “di parte”).
Come si può ben comprendere da questa corposa premessa più politica che cinematografica, io questo film lo reputo un’opera importante, fondamentale e necessaria: Diaz è dunque per me un film teso e appassionato, privo di ogni possibile deriva retorica, nel quale ogni inquadratura – e persino ogni “storia” - è al servizio di un disegno molto strutturato e complesso realizzato con uno sguardo acuto e ispirato da un regista che ha saputo trasformare la cinepresa in uno strumento al tempo stesso etico ed estetico di particolare pregnanza penetrativa. Mai come in questo caso però, alla fine è proprio l’aspetto stilistico (che pure è di elevato livello) a passare in secondo piano nella valutazione complessiva del risultato, perché è prioritario il “merito” attribuibile a questa potente pellicola, di essere riuscita a “risvegliare le nostre coscienze assopite”, e il solo fatto che la sua visione scateni tante forti emozioni nell’animo dello spettatore, susciti indignazione e rabbia, significa che lo scopo è stato raggiunto, elemento questo tutt’altro che di secondaria importanza che da solo consiglierebbe la visione appassionata di un film che invece ancora una volta in troppi hanno preferito disertare.
Se mi appariva già di tale portata - “a prescindere” da ogni altra considerazione che potrei definire “artistica” - il suo valore di “conoscenza” documentale, adesso che l’ho visionata questa prova “matura e consapevole”, sono ancora più convinto del fatto che proprio questo sia il metro più giusto per un giudizio primario affidato alle sensazioni e alle percezioni a “pelle”, che può davvero astrarsi dai semplici meriti cinematografici (che pure ci sono e sono notevoli) e andare oltre, poiché si tratta di un’opera importantissima e da privilegiare, anche se tutt’altro che esente da difetti, dovuti comunque a mio avviso più a un eccesso di cuore che a deficienze strutturali, e che riguardano semmai l’eccessiva pletora di “percorsi “ esterni al nocciolo centrale del problema, il diluirsi delle vicende in piccoli rivoli marginali necessari a definire meglio i molti personaggi, alcuni forse superflui e poco sviluppati - qualche fidanzata di troppo, imberbi ragazzini francesi “bisognosi di assistenza”, ma non solo - finalizzati comunque a rappresentare la complessa e variegata fauna del colorato mondo dei dissidenti del G8 che comprendeva certamente e in larga parte anche i “vituperati” Black Block che Vicari non teme di mostrare (noi non dobbiamo però dimenticare che c’erano fra loro – documentati da altri filmati presi in diretta da chi quei fatti li ha vissuti di persona - ben altri infiltrati di dubbia provenienza mandati a bella posta a far casino da chi credo volesse proprio che “ci scappasse il morto”), che allentano a volte un poco la tensione, soprattutto nella fase iniziale, quando ancora il mosaico di una storia corale e variegata come questa, è ancora in fase di definizione drammaturgica.
Va ricordato poi – e non è di secondaria importanza – che Vicari non ha voluto realizzare un documentario, ma bensì un vero e proprio film di “finzione” (se così si può definire, vista la assoluta aderenza con ciò che è emerso dai processi e dalle testimonianze – vedi l’elenco nutrito dei contributi “conoscitivi” indicati alla fine proprio nei titoli di coda ) che risulta però assolutamente veritiero nella sostanza proprio in virtù della sua ricercata costruzione tutta cinematografica e di un linguaggio filmico realisticamente concreto e appropriato, con quei reiterati “ritorni” un pò kubritchani (non è ovviamente un raffronto di merito, ma di metodologia utilizzata) che ricordano il procedimento usato per “Strategia di una rapina” del quale certamente Vicari ha tenuto conto e che rendono più “tollerabile” la tensione che altrimenti sarebbe a tratti potuta diventare insostenibile in questo che può essere considerato a pieno titolo un vero e proprio film dell’orrore, ma un orrore purtroppo che qui si è consumato veramente sulla pelle di troppi innocenti con una furia tutt’altro che cieca, ma assolutamente calcolata (questo nessuno può togliermelo dalla mente, visto che l’uomo ha un cervello che sa ragionare, e se compie certe azioni – se è disponibile a farlo – lo fa scientemente, non solo “per istinto” e non può avere nessuna attenuante nè essere assolto). Così penetrante e tragico nel suo impatto destabilizzante, che non mi perito a confessare di aver pianto in diretta per rabbia “impotenza” per le troppe lacerazioni accertate che ancora una volta la giustizia italiana non è stata in grado di “compensare” anche tardivamente o di lenire un poco visto che nessuno per il momento ha “davvero” pagato (e forse nemmeno lo pagherà alla fine il conto, poiché la prescrizione – altra barbiarie nostrana – è dietro l’angolo).
“Un poliziotto con in mano un estintore, un ragazzo che si sente una colpa non sua addosso, un uomo anziano che ci schiaffeggia con il buon senso, un sorriso verso l’ingiustizia più volgare e violenta. Sono solo un pugno delle tante immagini di Diaz – Don’t Clean up This Blood che non vi toglierete di dosso, così come lo sguardo liquido e ambiguo di Santamaria, apparentemente poliziotto buono ma forse solo più scaltro e opportunista, o l’interpretazione clamorosa di Jennifer Ulrich, più forte di ogni violenza e persino di noi spettatori, schiacciati e soffocati dalla repressione feroce e sistematica di uno Stato che si credeva libero e si scoprì democrazia a responsabilità limitata”: così scrive Boris Sollazzo su Ciak n° 4 di quest’anno parlando di questo film che ha davvero il pregio assoluto della “verità”, grazie anche al contributo di facce “giuste” - note e meno note - in un caleidoscopio di presenze dove nessuno “stecca” nemmeno per un istante o un’espressione, all’interno di un quadro dell’insieme che rende difficile una graduatoria (assolutamente non necessaria e ininfluente) non solo di valore, ma anche di efficienza: tutti al loro posto senza sgomitare, anche quando nomi di chiara fama sono relegati in parti secondarie, ed ogni “comprimario” (impossibile davvero citarli tutti) anche marginale, è un tassello importante di un “collettivo” oggettivamente strepitoso, perché ogni sguardo, ogni particolare, ogni movimento, è così partecipato e vissuto dal profondo da risultare più “reale” del vero. Il coinvolgimento emotivo degli interpreti è davvero palpabile, segno evidente di una totalizzante, uniforme condivisione di un progetto che non disdegna evidentemente il rispetto della forma e dello stile, visto che proprio di “cinema” si tratta, e dove anche i dettagli hanno la loro importanza (vedi la maglietta Dolce e Gabbana indossata dalla zelante funzionaria capo della polizia femminile che ci dice già da sola tutto quello che c’è da sapere sulla sua figura).
Non solo questo però perché Vicari senza compiacimento alcuno, riesce a raggiungere davvero il nostro cuore più che con le parole (anche se molte frasi come quella che riguarda “il manufatto da bonificare” sono indispensabili per disegnare il clima, il cinismo e le pulsioni repressive delle forze dell’ordine nostrane delle quali anche A.C.A.B. di Sollima ha messo in luce la degenerazione, insieme alle preoccupanti, persistenti deviazioni, e le forti spinte propulsive di gruppuscoli associati e omertosi che spesso li trasformano in “squadristi” legalizzati) proprio con le immagini (ottima la fotografia sgranata opera di Gherardo Grossi nella quale si innescano perfettamente i piccoli pezzi documentali recuperati dalle riprese “amatoriali” in “diretta” per fortuna filmate in misura così copiosa come mai era successo prima, che ci hanno consentito di conoscere da subito “l’altra verità” rispetto a quella inaccettabile e faziosa dell’ufficialità, pienamente ripresa e convalidata dai media di regime). Una commistione che contribuisce a darci una sconfortata conferma che nel nostro stato non ci sono servizi “deviati” ma che è proprio la classe politica che esercita il potere ad esserlo, governi e istituzioni comprese, altrimenti non sarebbe possibile che davvero proprio tutto delle tante infamie – stragi comprese - perpetrate nel nostro paese finisca poi sempre a “tarallucci e vino”.
Pur trovandoci allora di fronte a una finzione (nel senso di “immagine ricostruita”, una procedura che potrei definire proprio “costitutiva e fondante” del mezzo cinematografico e delle sue modalità rappresentative che passa proprio attraverso la “mediazione artistica” delle cose) si può ben confermare che quella regalataci da Vicari è alla fine una “verità documentale” seppure “indotta” che ci scaraventa anche fisicamente e con prepotenza, proprio dentro ai fatti, ci fa essere non solo “spettatori in sala”, ma ci trascina lì, direttamente nella scuola o nella caserma di Bolzaneto, nel momento stesso in cui stiamo percependo la visione di quegli accadimenti (una compartecipazione empatica che si radicherà però profondamente dentro di noi e che – almeno spero – saremo poi in grado di resuscitare ogni volta che ci troveremo nuovamente a confrontarci con i misfatti “insanguinati” commessi dalla nostra “deviata” classe dirigente e dai suoi corpi speciali).
Diaz è allora soprattutto un importante esempio di come il nostro cinema dovrebbe provare a ritornare ad essere militante: un cinema onesto, coraggioso e senza titubanze “reticenti” (molto diverso insomma da quelle “spensierate” commedie attuali di regime che vanno per la maggiore, invero non molto dissimili dal compromissorio cinema del telefoni bianchi di una volta), capace non solo di responsabilizzarci, ma anche di ammonirci ed educarci, in grado soprattutto di farci ricordare sempre e comunque ciò che siamo e come va il mondo, al fine di “costringerci” a mantenere alto ed attivo il livello di guardia, e di prendere di conseguenza le distanze “avversandole”, dalle compromissioni, dal troppo marcio, dalle convenienze personali, dai soprusi opportunistici e dalle connivenze anche corruttive che inquinano alla base il nostro “sistema paese”, in un mondo che risulta ora (ahinoi) anche “globalmente” troppo squinternato – inquinato – cieco e sordo ai problemi reali della gente (e dove forse anche quei comportamenti estremi di contrapposizione al sistema perpetrati magari con troppa distruttiva veemenza poco coordinata di quel “famigerato” G8, sarebbero da rivalutare se non nei metodi, per lo meno nella loro portata quasi preveggente, perché denunciavano già una deriva che nessuno allora voleva ammettere né vedere, ma che è stata poi la causa scatenante di quel cortocircuito economico e sociale che ci ha portato – come probabilmente sarebbe stato ipotizzabile solo leggendo meglio e senza preconcetti le analisi che del capitalismo aveva fatto Marx o dando voce a molti economisti e sociologi considerati “cassandre” iettatorie - dentro il “pozzo” dove siamo confinati adesso.
Metaforicamente allora si può dire che quella sospensione dei diritti (che comprende anche l’uguaglianza delle genti) è alla fine il tarlo inquinante che mina alla base la democrazia mondiale e la mette in crisi, ma non in discussione purtroppo però, visto che nessuno è interessato e disponibile a cambiare le regole del gioco (economico, ma anche di equilibrio fra gli stati) e che andando di questo passo ci inabisseremo sempre più e forse non avremo scampo.
E allora ciò che è successo in quella maledetta notte a Genova dopo l’altrettanto brutta pagina del giorno prima che costò la vita di Carlo Giuliani (un’altra “circostanza” invero poco definita e per la quale si è preferito salvarsi in corner trincerandosi dietro il comodo paravento della “legittima difesa”), il massacro indiscriminato degli occupanti della scuola Diaz, e le successive violenze nella caserma di Bolzaneto, è giustamente raccontato da Vicari con un realismo spiazzante ma tutto cinematografico che si trasforma davvero in una rappresentazione degna di un film dell’orrore (ma di quelli importanti di una volta) con l’irruzione assetata di violenza da parte delle forze dell’ordine che dovrebbero difenderci (e qui sembra davvero essere un raccapricciante eufemismo) che si scagliarono invece con inaudita ferocia distruttiva contro persone inermi e senza colpa, quasi che si trattasse di un ultimo elemento da spiattellarci in faccia impudicamente con tutta la sua forza dirompente (ed è per questo che fa tanto male) per ricordarci che l’orologio della democrazia che in Italia si era già inceppato da moltissimi anni (o forse non si era mai rimesso veramente in moto nemmeno quando grazie a un referendum fu proclamata la repubblica) si è definitivamente “rotto” e non si vede all’orizzonte un orologiaio veramente capace di metterlo una volta per tutte in movimento.
Tornando ai meriti del film, possiamo comunque dire che Vicari è riuscito a raggiungere una considerevole, importante sintesi dei fatti (tutt’altro che facilissima e scontata) grazie a un lungo lavoro di ricerca documentale svolto a 360° che fanno della Diaz e della Caserma di Bolzaneto (il nostro deprecabile Abu-Ghraib) i luoghi anche simbolici di un degrado (che va ben oltre gli episodi qui documentati) dove precipitano le esistenze di persone che non si conoscono fra loro e che forse nemmeno tutte condividevano esattamente gli stessi ideali, ma tutte compartecipi di una tragedia e di una truce sopraffazione senza limiti e giustificazioni. Una specie insomma di castello dei destini incrociati (sono parole dello stesso Vicari) all’interno del quale un vortice di inaudita violenza spezza quel filo che lega tutto a tutti (Davide Zanza) e che proprio per questo ci rende spiazzati e consapevolmente privi di difesa di fronte a tanto immotivato furore.
Per perseguire il suo scopo, il regista sceglie dunque giustamente e con perspicacia proprio la coralità dell’impatto, e spezza giustamente e più volte il racconto degli eventi quando siamo ormai proiettati sull’orlo dell’abisso – o forse siamo già con tutti e due i piedi dentro – per riportarci anche con la coscienza, all’origine dei fatti (la reiterata immagine della bottiglia di vetro che si infrange) costringendoci a riflettere e ragionare, visto che la sua cronaca volutamente ossessiva, fatta di ripetizioni ed ellissi che procedono implacabili all'indietro, diventa davvero una straordinaria modalità di rappresentazione delle cose perfetta per farci metabolizzare anche al di là delle emozioni primarie, ciò che stiamo gradualmente percependo, proprio perchè le vicende che vediamo susseguirsi sullo schermo non sono raccordate seguendo strettamente l’ordine temporale, ma alternando invece (grazie a quegli “infiniti ritorni”) i vari punti di vista che spaziano dai manifestanti alla polizia, ed offrono di conseguenza un quadro più generale e sfaccettato che obbliga a giudicare meglio i fatti proprio per come stanno e si sono svolti, per assumere in toto il senso dell’orrore ed annusare la paura, poichè ogni volta si è poi costretti nostro malgrado a ritornare con accresciuta tensione e compartecipazione, dentro a quell’inferno ancor più inorriditi e impotenti (ma molto più consapevoli).
Potremmo dire allora che quell’assalto incivile, girato senza l’aiuto di effetti speciali o grandi campi di battaglia dentro gli spazi claustrofobici di una scuola davvero troppo piccola per contenere tutto quel sangue versato, è il punto più alto e potente della pellicola, degno di stare alla pari senza sfigurare, con le migliori sequenze de Distretto 13 - Le brigate della morte di Carpenter, film al quale ci si potrebbe persino rapportare per più di una ragione anche in virtù del contributo speciale della soggiogante colonna sonora (le musiche ossessive e martellanti di Theo Teardo).
Per chiudere e provare infine a fare un po’ la sintesi di tutto il mio precedente sproloquiare, concludo scrivendo che il film di Vicari è una rappresentazione lucida ed esemplare della violenza e della degenerazione (anche dell’animo umano, di quell’essere “pensante” che si reputa intelligente ma che diventa troppo spesso qualcosa di più di una belva feroce, fino a compiere brutalità talmente efferate, inenarrabili e “coscienti” che l’istintualità anche feroce di una bestia non sarebbe davvero in grado di concepire) che non dà tregua allo spettatore, lo bracca da vicino e lo costringe a fare i conti con le proprie fragilità, facendolo sentire a sua volta chiuso in una trappola che non gli lascia scampo e soprattutto gli fa percepire tutto il preoccupato smarrimento della gratuiticità di quella esecuzione ben premeditata che avrebbe veramente potuto davvero riguardare anche lui se le circostanze, il caso o la “determinazione”, lo avessero portato a transitare da Genova in quei giorni, indipendentemente dalle sue azioni, così da considerare anche dal suo punto di vista come fatto ormai consolidato e certo, che quei soprusi, quelle botte, quel sangue che mai dovrà essere pulito (Don’t clean up this blood, come recita appunto il sottotitolo), vista la composizione multietnica delle vittime che lo hanno versato e la loro diversificata provenienza, riguarda tutta l’umanità e non solo noi italiani.
Il regista (a mio avviso giustamente) ha scelto di omettere qualsiasi elemento identificativo dei personaggi (dietro ai quali sono riscontrabili comunque molti elementi di “riconoscibilità certa”) ed ha preferito non indagare più implicitamente sulle responsabilità politiche (lasciando a coloro che hanno responsabilità istituzionali il compito di farlo – se mai avranno davvero la volontà di adempierlo e rispettarlo questo “dovere” certo e sempre disatteso) ma facendocele comunque ugualmente percepire attraverso il discorso di Berlusconi trasmesso dalla TV. Ha motivato la scelta con la sua volontà di far diventare la Diaz un elemento simbolico ed universalizzabile, la testimonianza indelebile di una indicibile vergogna e un sopruso e che proprio in virtù di tale finalità, ricordando che è un film di “finzione” tutta documentata però, ha ritenuto importante e doveroso eliminare i nomi ed i “riferimenti” certi che “riguardano solo la cronaca e avrebbero fatto invecchiare l’opera circoscrivendola semplicemente a quei fatti e a quel momento (Daniele Vicari).
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