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Diaz

Regia di Daniele Vicari vedi scheda film

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La recensione su Diaz

di LorCio
7 stelle

Non so esattamente cos’altro si possa dire su un film del genere, di certo più commentato o criticato che visto (almeno così parla il box office alla seconda settimana di permanenza sugli schermi). Più che altro, non so cos’altro si possa dire (così come, giusto per fare un esempio recente, per quanto riguarda Romanzo di una strage) che non sia stato già detto o che, peggio ancora, sia retorico o semplicistico. Di fronte a Diaz si prova un unico sentimento comune, tanto di moda oggigiorno (ma in quel caso con accezioni più travisate): l’indignazione, che qui ha una sua motivazione profonda quanto evidente, e non bisogna necessariamente spiegare per quale ragione la si percepisca nella maggior parte degli spettatori.

 

Quello di Daniele Vicari, prima di ogni cosa, è un film che vuole, deve fare indignare (anche se il termine più giusto dovrebbe essere “incazzare”, ma tant’è) perché è costruito con un intento, se vogliamo, anche didattico. Partendo dalle carte processuali (e non sull’interpretazione di qualcuno: le polemiche che stanno dietro Diaz hanno esattamente lo stesso problema, cioè quello di voler imporre una interpretazione rispetto ad un fatto palesemente ovvio), Vicari e Laura Paolucci mettono su un’opera corale (almeno una quindicina di figure se non di più) in cui conta più cosa rappresentino i singoli personaggi che chi siano in effetti (qualche esempio: il celerino tormentato e il celerino violento, il giornalista che fa il proprio lavoro e il giornalista più o meno doppiogiochista, il membro del Social Forum che viene torturato e il black block che si riesce a salvare, il pensionato che ha già visto tutto in quella vita da cu rimane ancora una volta stupito e i dirigenti della polizia che permettono la macelleria messicana nella scuola…) proprio per meglio illustrare l’umanità composita e variegata che abitava quella Genova messa a ferro e fuoco in quei caldi giorni di luglio.

 

Vicari e Paolucci stanno dalla parte, detto chiaramente, di chi ce le ha prese senza ragione e la tragedia intima delle vittime e non soltanto la denuncia drammatica di una notte di assoluta, criminale follia. Chi storce il naso di fronte alla raffigurazione dei poliziotti eccessivamente violenti ed inspiegabilmente crudeli dovrebbe innanzitutto leggersi le carte (il film, su questo punto, è molto chiaro specialmente nel finale in cui si espone esplicitamente la vicenda processuale), ma dovrebbe anche compiere atto di onestà intellettuale.

 

La frase di lancio di Amnesty (“La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”) può sembrare retorica per quanto vera, ma è comunque un modo per sottolineare ulteriormente il disastro etico, civile, militare e politico di quella notte infernale. Al di là di tutto, però, il film ha ritmo (grazie a dio), procede spedito concedendosi alcuni intervalli replicati, quasi a voler sezionare l’opera in vari filoni, incentrati sul lancio di una bottiglia di vetro. Non conosce tregua non tanto per l’immagine (ci sono anche scene distese o almeno tranquille, come la visita al cimitero del pensionato o il principio di sesso tra i due no global) quanto per la tensione, che scorre nelle vene della storia oserei dire inevitabilmente, palpabile in qualunque angolo di un’opera sofferta e nervosa, diretta e dolorosa.

 

Si è molto parlato dell’insostenibilità del blitz nella Diaz, del sangue sgorgante e della violenza plateale: niente è gratuito, non c’è il benché minimo sospetto di una qualche volgarità o di una pornografia del dolore, tutto è affrontato con ragionata attenzione. Coloro più sensibili magari non riusciranno a sopportare certe cose intollerabili (tipo la violenza alla ragazza straniera dentro Bolzaneto), qualcuno chiuderà gli occhi, ma ha l’indubbio valore di arrivare dritto come un pugno nello stomaco per chiarezza, semplicità e lucidità. Teho Teardo ci mette del suo con una partitura incessante, Gherardo Gossi fotografia come se fosse in zona di guerra e il montaggio di Benni Atria è più che mai adeguato alla situazione.

 

Cinema civile puro, non un capolavoro ma film finalmente urgente in cui anche lo stuolo di attori, famosi e no, si fa da parte in nome della causa (comunque, su tutti, note di merito a Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Fabrizio Rongione, Jennifer Ulrich ed Alessandro Roja).

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