Regia di Daniele Vicari vedi scheda film
C’è una frase che rimane impressa dopo aver assistito a Diaz e che inevitabilmente tormenta i pensieri: sul finire del film, un cartello ci informa che nessuno degli agenti coinvolti nel pestaggio della scuola e della caserma Bolzaneto è stato sospeso o allontanato dal servizio. Com’è possibile che la sicurezza di una città o di una nazione passi dalle mani di chi è stato capace in una lunga notte di follie di abbattersi con estrema furia su giovani, anziani e donne incinte? La costituzione italiana ricorda che l’esercizio della forza fisica appartiene allo Stato ma ciò implica anche che, a differenza di un comune cittadino, lo Stato esca inerme dall’abuso di tale potere? Ci si chiede come sia possibile, ad esempio, che nessuno degli agenti, degli ispettori e dei funzionari coinvolti abbia sollevato un dubbio sulle modalità di azione: anche chi, in seguito, si accorge della cazzata commessa in realtà appare molto superficiale nelle sue conclusioni, quasi come se in una ponziopilatesca presa di coscienza continuasse a sottovalutare il grado di azzeramento di ogni forma di diritto. E, per diritto, non è da intendersi solo qualcosa che inerisce ai diritti civili di libertà (dal pensiero all’associazione) ma anche (e soprattutto) alle più semplici e umane forme di sopravvivenza. Se da un lato è possibile provare a dare delle spiegazioni sociopsicologiche all’assalto alla Diaz, dall’altro appare senza spiegazione quello che si consuma alla Bolzaneto: l’arancia meccanica dello Stato continua paradossalmente a manifestarsi senza alcuno scrupolo di reticenza o pietà e coinvolge anche secondini, medici e infermieri. Era il luglio del 2001, non era ancora arrivata la tragedia del 9 settembre e le immagini di Guantanamo sarebbero arrivate solo qualche anno dopo ma, nella piccola e parca Genova, la strategia del terrore, dell’umiliazione corporea e della limitazione di pensiero di berlusconiana impronta poneva le basi di ciò che per anni sarebbe diventato il diktat dominante: nessuna pietà per il sospetto nemico.
Daniele Vicari firma un film duro, a tratti violento, ma difficilmente dimenticabile: non fraintendiamo, non siamo di fronte però a un capolavoro. Cinematograficamente parlando, Diaz ha molti difetti. Primo tra tutti, quello di essere moralmente ricattatorio e a tesi unica (nonostante il tentativo di approfondire i diversi punti di vista, ricorrendo, grazie a una soluzione tecnico-visiva che inorridisce per la sua provenienza da fiction televisiva, a un lancio di una bottiglia che, quasi come nel contemporaneo Romanzo di una strage, segna il cambio di prospettiva in un trittico di sequenze che alterna la linearità del racconto, interrompendola quasi sempre all’inizio della scena clou che poi impegnerà tutta la seconda parte del film) ma è un film utile, necessario a riflettere su una pagina di storia ancora viva nei nostri occhi. Con un processo ancora in corso e di cui si attende il pronunciamento della Cassazione nel prossimo giugno, Vicari non fornisce risposte ma lascia domande disseminate lungo le due ore e passa della pellicola. Mancano, ovviamente, tutti i nomi coinvolti nella vicenda, le decisioni dei poteri forti si fermano a una piccola stanza della Questura di Genova: a Roma che si diceva? Possibile che a Vicari non sia venuto in mente di raccontare cosa ne pensava l’allora Ministro dell’Interno di quanto stava per avvenire? Non si può pensare che un’operazione come quella della Diaz sia frutto solo di un ispettore mandato da Roma che si fa abbindolare da alcuni funzionari sottoposti che fremevano per avere il nome sulla prima pagina dei giornali del giorno dopo.
Manca anche un minimo di approfondimento psicologico dei personaggi: si abbozzano tentativi ma si perdono per strada. Paradossalmente, seppur nella sua controversa struttura, la psicologia dei celerini era molto più ben rappresentata in ACAB di Sollima, un film con cui Diaz ha molti più punti in comune di quel che le dichiarazioni dei rispettivi registi lascino intendere. È difficile pensare, ad esempio, che l’irruzione alla Diaz sia stata fatta solo per accontentare i poliziotti pronti ad esplodere da un momento all’altro per la tensione accumulata: la tramutazione in camicie nere a cui danno luogo necessita di una base di esplorazione e indagine psicologica che, purtroppo, in Diaz non c'è, rendendo il film come un atto giudiziario, accompagnato da immagini in movimento. Così, come manca un punto di vista interno alla storia.
Se realizzi un film che vuol essere di denuncia, devi tenere in conto che la denuncia non passa esclusivamente per la rassegna dei colpi di manganello o estintore che un poliziotto ha inflitto a un no global. La denuncia necessita di punti di vista che si scontrano sul piano dell’azione o dei dialoghi, ha bisogno di personaggi di cui è possibile sposare una tesi comune. In scena vediamo molti personaggi, li seguiamo nelle loro varie lingue (plauso per non essere ricorsi a un doppiaggio che avrebbe snaturato il clima multi-socioculturale) ma non sappiamo niente di loro. Ingenuamente, sappiamo solo che alla Diaz c’era il cuore pulsante del movimento delle contestazioni, altrove invece si balla e si canta per strada, rendendo il G8 un’occasione per un momento di vita da comune sessantottina, snaturando in questo modo tutto ciò che invece coinvolgeva anche il più piccolo angolo di Genova. Va, però, dato adito a Vicari di aver inserito, sempre all’interno della Diaz, due giovani coinvolti nella morte di Giuliani (troppo sottovalutata nello svolgersi del film), ricorrendo però a una linea narrativa, se vogliamo, anche beffarda, concedendo loro di uscire impuniti dal massacro e mettendo uno di loro nelle possibilità di fuggire come un vigliacco di fronte al pericolo.
Mentre i ruoli di Claudio Santamaria e Elio Germano, rispettivamente poliziotto e giornalista, sono ridotti al minimo sindacale, facendo pensare più a una comparsata che ad una parte in piena regola dato che ad alcune premesse narrative (come ad esempio lo spirito da giornalista alla ricerca della verità) si perdono per lasciar spazio alla “macelleria messicana”, l’intero film poggia sulle spalle di Jennifer Ulrich e Davide Iacopini, entrambi giovani coinvolti a vario titolo nel movimento di contestazione. Se al personaggio della Ulrich (Alma, che all’interno della Diaz si occupa di raccogliere le telefonate dei parenti dei giovani, in cerca di notizie) va riconosciuto di essere perno fondamentale nel processo di identificazione con le vittime della furia della polizia, al personaggio di Iacopini si potrebbero invece muovere mille accuse di superficialità, per come nella sceneggiatura il suo impegno politico passi in secondo piano per via della storia d’amore (inutile) con il personaggio interpretato da Aylin Prandi, una specie di zingara arrivata a Genova al seguito di un gruppo di “familiari-musicisti” (a far che?). Nella moltitudine di volti che si susseguono, resta altresì impresso quello di Monica Barladeanu (o Birladeanu, qualcuno faccia prima o poi chiarezza sul cognome dell’attrice), nei panni di una delle prime giornaliste che accorrono alla Diaz. A lei spetta il compito di pronunciare la frase che da ben 11 anni tutti quanti ci chiediamo: “perché adesso che il G8 è finito?”… già, perché?
Guardando Diaz non è possibile non notare come l’ottima confezione debba molto alle fiction di stampo poliziesco: echi di Romanzo criminale, Distretto di polizia e Squadra Antimafia – Palermo oggi si ravvivano nelle sequenze di irruzione come nelle riprese a bordo di un elicottero. Il contraltare delle riprese con camera a spalla rende la frenesia di quelle ore permettendo allo spettatore di entrare in scena e far parte della vicenda, seppur con un occhio asettico che contribuisce a far credere di essere sempre testimone e mai partecipante mentre l’introduzione di alcune microsequenze, che sembrano uscite da riprese amatoriali (sarebbe interessante sapere, ad esempio, l’origine: sequenze rielaborate o veramente fornite da qualche videoamatore del tempo?), ricordano quanto ciò a cui si assiste sia realtà e non frutto di finzione narrativa. È difficile non avvertire ogni singolo colpo sulla propria pelle e non passarsi la mano sulla testa per capire se si sta sanguinando o meno: la scelta di mostrare senza sconti ogni tipo di violenza fisica e verbale apre il varco dell’emotività che difficilmente porta lo spettatore a non apprezzare il lavoro svolto da Vicari e a dimenticare le imperfezioni “tecniche”, uscendo dalla sala con la sensazione di voler sapere cosa è accaduto dopo, dato che il film si ferma proprio un attimo prima che inizi la denuncia dei soprusi.
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