Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Chissà se Fellini ha mai - se non visto - almeno saputo dell'esistenza di questo cortometraggio di Roy Andersson, che racconta in una serie di brevissimi quadretti fra il surreale e l'onirico la vita di un uomo 'inquadrato' di mezza età. Perchè dentro a World of glory c'è tantissimo 'fellinismo', quel senso di inettitudine e di perenne incomprensione che riguarda da vicino il cinema del Maestro riminese (il finale de La dolce vita come l'equivoco-donna di Snaporaz, ne La città delle donne); ma c'è anche tutto il gelo scandinavo che il regista e sceneggiatore svedese porta nel dna, esteticamente espresso in un trucco cadaverico fortemente accentuato e nella scelta di vestiti bianchi per tutti i personaggi del film. Tanto che viene da chiedersi se i vivi sono in realtà morti e viceversa: altro nodo fondamentale della poetica felliniana (l'irrealizzato Viaggio di Mastorna ruotava tutto attorno a questo dubbio). Certi momenti di agghiacciante ilarità (il bambino con il tatuaggio Volvo in fronte) somigliano invece, per la disarmante laconicità della scena, a idee partorite da Ciprì e Maresco: staticità, nessuna enfasi nella recitazione, sguardo in camera, luci basse e 'freddure' (nel senso della parola) imbarazzanti. Questo cortometraggio è uno dei rari lavori cinematografici che Andersson realizzò nel quarto di secolo intercorso fra il flop di Giliap (1975) e la rinascita di Canzoni del secondo piano (2000): peccato, davvero peccato che un autore tanto ispirato e leggero - sia pure nel trattare temi infinitamente gravi - ci abbia lasciato così poco. 8/10.
Un uomo, agente immobiliare di mezza età, racconta la sua vita in una serie di brevissime scenette: ci fa conoscere sua madre, suo fratello, suo figlio, la sua auto, il suo lavoro e infine va a letto, a tarda notte, con urla assordanti nelle orecchie: ma domattina la sveglia suona presto di nuovo, non c'è tempo da perdere.
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