Regia di Stefano Sollima vedi scheda film
L'inizio è una lunga sequenza dove con un montaggio incrociato ci vengono presentati i protagonisti della storia. Cobra, Mazinga, Negro sono i nomi di battaglia dei tre poliziotti del reparto celere riassunti in quelle scene rubate ad un frammento delle loro rispettive esistenze. Il primo insegue e malmena il pirata della strada che stava fuggendo dopo averlo investito; il secondo blocca uno spacciatore mentre è a fare la spesa con la figlioletta; il terzo si ritrova in questura per riportare a casa il figlio che è stato fermato dalle forze dell'ordine. Le loro sono ancora vite senza nome, facce che pretendono rispetto senza alcun biglietto da visita; la notte a dipingergli nel volto un abisso che di lì a poco impareremo a conoscere fino in fondo. Per il momento la cosa più importante è assistere a quello che vediamo: un privato che non riesce a svestire l'uniforme.
Teso, violento, sincopato, abituato a farsi strada tra le maglie di una metropoli trasformata in un campo di battaglia, il prototipo umano al centro della storia è abituato ragionare sulle opportunità che gli assicurano la sopravvivenza, in un confronto esistenziale raramente alla pari, consumato tra le gradinate di uno stadio popolato da belve inferocite, oppure in una terra di nessuno, dove lo stato si fa vivo solamente quando c'è un conto da saldare. Il film di Stefano Sollima si sviluppa proprio da questo punto di partenza, assunto come dogma inconfutabile, in cui l'impossibilità di ritornare ad essere normali dopo l'esercizio delle proprie funzioni viene fissata nel sistematico alternarsi di scene e situazioni caratterizzate da scelte comportamentali che non distinguono tra lavoro e tempo libero. Da quel momento l'evolversi dell'intera vicenda, nella mancanza di confine tra un ordinanza di sgombero da eseguire riducendo al massimo il rischio di effetti collaterali, e la vendetta contro un gruppo di immigrati eseguito per conto terzi, finirà per rendere impossibile ogni tentativo di distinzione.
Quello che conta, al di là della strumentalizzazione in chiave politica e sociale (non a caso il senso di frustrazione nei confronti di un sistema che non tutela i cittadini è accennato, e per di più delegato a chi ormai non fa più parte del sodalizio) è un senso di appartenenza continuamente ribadito. In questa direzione è chiaro il messaggio che il Cobra impartisce al neo assegnato con fare perentorio: il collega è un fratello, il gruppo una famiglia da salvaguardare in ogni occasione, anche a costo, come capiterà negli scampoli conclusivi della vicenda, di tradire quegli interessi, dei cittadini e della nazione, poco prima legittimati dal rischio dell'incolumità personale al quale gli stessi agenti si sottopongono ogni volta che lasciano la caserma. In un quadro simile, e con la storia che gradatamente si concentra sulla pista seguita dal Cobra per catturare il colpevole del ferimento del suo comandante (Mazinga), il film ci mostra le conseguenze di un'etica che riduce le possibilità di condividere affettività d'altro tipo, con famiglie mai formate, quella del Cobra è un sorso di birra consumato in solitudine, oppure complicate dall'assenza di chi dovrebbe governarle con la propria presenza Al suo esordio sul grande schermo Sollima doveva affrontare molte sfide: innanzitutto quella di confermare nel passaggio dal piccolo al grande schermo quanto di buono era stato detto di lui a proposito della trasposizione televisiva di "Romanzo criminale" (2005). Poi, forse la cosa più importante, quella di evitare la retorica e l'ideologia che spesso accompagna la rappresentazione del potere nelle sue diverse manifestazioni. Ed infine la possibilità di realizzare un prodotto in grado di far pensare evitando di mortificare le necessità dell'intrattenimento.
A conti fatti il tabellino fa segnare il pieno dalla parte del segno più perché il film, pur ricalcando nel paradigma del poliziotto consumato dal male del suo lavoro modelli e personaggi di tanto cinema americano, così come, nella rappresentazione di una comunità tribù, riconosciuta nella condivisione degli spazi - lo schieramento dell'assetto antisommossa, l'abitacolo del furgone che ogni volta li riporta sul luogo del delitto, gli spogliatoi del posto di lavoro - e dei rituali - la partita di rugby, la birra con gli amici, l'iniziazione dei nuovi arrivati - gli esempi forniti da alcuni campioni del genere come "Tropa de elite" (2007) e "Ha Shoter", premio speciale della giuria all'ultimo festival di Locarno, "ACAB" riesce a crearsi un segno distintivo. Non solo nel referto di un malessere che nel ritratto di un istituzione costretta a creare dal di dentro le motivazioni per tirare avanti, riesce a parlare di una crisi spirituale e sociale che a raggiunto livelli allarmanti, ma anche nella capacità di raccontare utilizzando una dialettica che, anteponendo la fluidità della cinepresa alla densità delle interpretazioni, riesce a restituire l'agonismo tormentato dei suoi protagonisti.
A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo merita però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.
(pubblicata su ondacinema.it)
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