Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film
Questo straordinario cortometraggio nasce dalla mirabile fusione di due racconti, che riesce a raccordare rendendo fedelmente il contenuto di entrambi: si tratta del famoso “Il pozzo e il pendolo” di Edgar Allan Poe e dello sconosciuto “La Torture par l’Espérance” dello scrittore francese Auguste de Villiers de l’Isle-Adam (1838-1889). Ambedue le storie hanno per protagonista un uomo prigioniero in un sotterraneo, dove egli viene sottoposto a sevizie psicofisiche dall’Inquisizione spagnola. Alla prima parte, ambientata nella ormai nota cella circolare attraversata da una voragine e sovrastata da una mannaia oscillante, Svankmajer accoda una seconda parte che vede l’uomo fuggire attraverso corridoi bui, fino a che non intravvede una possibile via di scampo. Questa è la fase della speranza, che si concluderà, come nell’opera di de Villiers, con la rivelazione che ne spiegherà l’accostamento con la tortura. Il finale, purtroppo, è indecifrabile a chi non abbia a disposizione la fonte da cui è stato tratto, la sola in grado di illustrare il significato di quell’ultima frase pronunciata dal monaco che accoglie il fuggitivo all’uscita dal cunicolo: Eh quoi, mon enfant! A la veille, peut-être, du salut… vous vouliez donc nous quitter? (Ma come, figlio mio! Proprio alla vigilia, forse, della tua salvezza … ci volevi dunque abbandonare?). Quella figura, il cui volto è nascosto dal cappuccio, è in realtà il Grande Inquisitore in persona, che aveva volutamente offerto all’uomo l’occasione di scappare, per far seguire, all’ansiosa aspettativa di libertà, il duro colpo della disillusione. Un supplizio crudele e ben architettato, inflitto al peccatore, alla vigilia della sua probabile morte, come parte del suo percorso di redenzione.
Non è facile riconoscere lo stile di Svankmajer in questo bianco e nero tenebroso, in cui la figura umana occupa una posizione del tutto secondaria (del protagonista si vedono solo le mani e i piedi) senza che essa venga adeguatamente sostituita dagli oggetti in movimento. È certo atipica la scarsità di azione e di animazioni, ma questa scelta minimalista non è affatto incoerente con la sua poetica. Si può osservare, infatti che, nella filmografia di questo autore, se la centralità della persona interviene laddove il tema principale sono le sue passioni, i suoi istinti ed i suoi dolori, la sua marginalità indica inequivocabilmente che il discorso verte sulla sua morte, passata o incombente. Il pensiero, a questo proposito, corre a The Fall of the House of Usher e The Ossuary, altre due opere in bianco e nero, in cui l’essere umano è totalmente fuori dalla scena, eppure è presente, nelle inquadrature, sottoforma di spettro. È ammirevole il modo in cui questa visione, apparentemente contigua all’astrattismo geometrico di opere come A Game of Stones oppure Johann Sebastian Bach: Fantasia G-moll, riesca, in questo film, a fondersi armoniosamente con l’anima profondamente umana della letteratura.
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