Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film
Il destino è la dimora in cui l’uomo si ritrova intrappolato: è il teatro della sua vita, ma non è affatto un’abitazione costruita pensando alle sue necessità. L’esistenza non è disegnata a misura del nostro intelletto o del nostro corpo: è, come l’appartamento in cui è rinchiuso Josef, il protagonista di questa breve storia, un luogo in cui avvengono fenomeni incomprensibili e contrari alle sue esigenze. Senza nessuna causa apparente, il metallo delle posate si deforma, rendendole inutilizzabili, ed il letto si trasforma in segatura. Josef non può capire, e non può né mangiare, né dormire, risultando così profondamente mortificato nell’essenza della sua umanità, che è fatta di pensiero razionale e bisogni fisiologici. L’ambiente che lo circonda obbedisce ad una geometria sghemba e ad una logica traslata, con metamorfosi ed apparizioni che sfidano apertamente le leggi della fisica ed il principio della gradualità dei processi naturali. Tutto appare incoerente e discontinuo, come per evitare ad ogni costo una regolarità che, col tempo, potrebbe renderlo prevedibile e quindi controllabile. La casa-prigione in cui Josef è stato confinato da una forza misteriosa è la gabbia della nostra ignoranza, le pareti sono l’ostacolo impenetrabile che limita la nostra visuale sul mondo: da quella frontiera vediamo arrivare gli eventi (una coppia di cani affamati, un uomo con una gallina ed un’ascia), ma non ci è consentito guardare al di là, al fine di scrutarne l’origine. La visione unificatrice di Svankmajer, che riduce l’uomo ad uno dei tanti meccanismi dell’universo (un complicato aggeggio di spirito e carne), si esprime qui nell’avida volontà con cui le cose mirano a dominarlo e ad appropriarsi di lui (dirigendo i suoi movimenti con frecce disegnate sul pavimento, inchiodandolo al muro e al tavolo, sommergendolo con un cumulo di detriti): è il richiamo del tutto che tende a inglobare la parte, sottraendola alla sua individualità ed attirandola dentro la massa indifferenziata degli esseri del creato. In The Flat Svankmajer utilizza espliciti riferimenti al surrealismo pittorico (con citazioni di Paul Klee e René Magritte) per rappresentare quella che è, letteralmente, una dimensione superiore alla realtà: un mondo in cui si formano, secondo dinamiche per noi inafferrabili, manifestazioni tangibili di concetti non riconducibili alle nostre categorie mentali. Il fatto è ciò che si percepisce, non ciò che si spiega: è ciò che irrompe nella nostra vita con la sua imperscrutabilità, della quale noi saremo sempre e solo vittime indifese.
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