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Musica nel buio

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Musica nel buio

di Aquilant
8 stelle

Affiora in modo dolente tra le righe di questa “Musica nel buio” il viatico di una precaria condizione umana segnata da una cogente percezione del dolore. E pur non rivestendo particolare interesse ai fini di un’introspezione critica del nutrito corpus cinematografico bergmaniano, l’opera ci fornisce indubbiamente un’opportuna chiave di lettura ai fini della comprensione delle prime ansie metafisiche di un autore sempre pronto ad interrogarsi sul mistero della vita oltre che sulle miserie esistenziali della condizione umana vista nella prospettiva dell’eternità. Traspare in maniera netta tra le righe il tipo di educazione subita dall’autore, intriso di rigidi concetti morali luterani apertamente ispirati ad un manicheismo metafisico che poco o niente ha a che vedere con la funzione consolatoria della religione cristiana. Bergman dimostra una certa attenzione nei confronti del sostrato sociale che lo circonda, disposto a farsi carico dei disagi giovanili della sua epoca causati dallo scarso spirito interclassista dimostrato da una nazione in cui soltanto teoricamente “il giardino della conoscenza è aperto a tutte le classi sociali”. Ed è possibile intravedere le prime avvisaglie delle sue opere più mature in questo onesto e per taluni versi ingenuo melodramma incentrato sulla problematica scelta tra l’accettazione di una visione in nero della vita e la scelta di una non-visione assoluta. E non mancano alcune significative sequenze che la dicono lunga sulle potenzialità creative dell’allora ventinovenne genio di Uppsala. “Musica nel buio fu un onesto prodotto all’insegna di Gustaf Molander.” Scrive l’autore. “Trattava di un musicista cieco, per me ora era questione di mettere, per così dire, i demoni in un vecchio sacco. Qui non avrei potuto farne uso. Lessi il romanzo e mi sentii soffocare.”
Ma ad onta di tali pessimistiche previsioni il sacco è destinato a rimanere vuoto. In un’allucinatoria sequenza di notevole impatto emozionale Bergman lascia sprofondare in una palude ribollente il giovane protagonista, alla mercé di allucinate visioni conseguenti ad una irreparabile perdita, costretto a confrontarsi con i mostruosi fantasmi della sua psiche che lo trascinano sempre più in giù nel fango e riemergendo per forza di volontà dalla melma insidiosa di un coma profondo, dando l’abbrivio ad un tormentato viaggio di maturazione tramite la cognizione del dolore. Indimenticabile anche la sequenza onirica di sapore hitchockiano relativa all’incalzare di un treno in corsa, da considerare come una vera e propria lezione di cinema da incubo psicoanalitico, laddove viene creato un vero e proprio punto d’incontro tra due autori abituati a “guardare” piuttosto che ”vedere”, i quali conformemente ad una ben nota enunciazione godardiana sono soliti camminare per la strada a testa bassa, fissando la loro attenzione su dei punti ben precisi, per nulla interessati a cogliere con lo sguardo ciò che si presenta ai loro occhi.
Bergman dimostra di avere ormai assimilato la lezione dell’operatore Oscar Rosander, iniziando a concepire il ritmo dei suoi film fin dalla sceneggiatura e ad organizzare mentalmente il montaggio già nel momento della ripresa. Per sua stessa affermazione, ogni forma di improvvisazione gli è oramai estranea. Il cinema si sta tramutando sotto i suoi occhi in un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, apparendogli come lo specchio di una realtà sempre più mistificatoria.
E la sua materia forse ancora grezza, non del tutto temprata nel ferro e nel fuoco delle successive tormentate estasi filmiche, è già intrisa di una visionarietà primitiva, rivelatrice della sua volontà di iscriversi a cantore di un’esistenza che si avvia a tappe forzate a rispecchiarsi nell’anonimità della morte.

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