Regia di Gilles Paquet-Brenner vedi scheda film
Aveva i suoi amici Sara, soprattutto Ruth e Anna, e Geremia, con il quale un giorno magari si sarebbe sposata. Solo otto anni e i sogni di una ragazzina negli occhi, ma la malvagità degli uomini decise altrimenti. Ascoltiamo il primo che raccontò la storia di Sara, strappata dai nazisti alla sua vita. È Jean-Jacques Goldman, la canzone è Comme toi, sottotitolo Elle s’appellait Sarah, che poi è il titolo originale di La chiave di Sara. L’episodio storico è l’ignobile rastrellamento dell’estate del 1942, quando 13 mila ebrei furono rinchiusi nel Vélodrome d’Hiver, a Parigi. Se ne salvarono una manciata. Vicenda già raccontata in un altro film recente, Vento di primavera di Rose Bosch, ma questa volta la storia prende rivoli diversi. Sara rinchiude il fratello nell’armadio promettendogli di tornare a prenderlo. La chiave del titolo è quella dell’anta chiusa. Ai giorni nostri, una giornalista americana da vent’anni a Parigi (Kristin Scott Thomas) si imbatte nel dramma della bambina e decide di capire cosa le sia successo. Come un mastino rimesta nella più cupa miseria umana, quella che provocò la Shoah o la lasciò accadere, scoprendo quanta gente preferisca dimenticare. Esce tardi in Italia La chiave di Sara, nonostante un notevole successo in patria nel 2010 (quasi un milione di spettatori) e un libro amatissimo (di Tatiana de Rosnay) alla base della sceneggiatura. Come valutarlo? Difficile essere antiretorici con la più grande tragedia del Novecento, e purtroppo la strada scelta dal regista Gilles Paquet-Brenner, quella del melodramma, è la più impervia, con un risvolto sentimentale nell’epilogo, eredità del libro, che sa fortemente di racconto rosa. Ci sono però anche momenti toccanti nella prima parte, con Sara al centro della scena, ed è intrigante l’incedere contemporaneo della vicenda, conseguenza diretta del passato a ricordare la prossimità della Storia. Per la seconda volta (la prima ai tempi di Ti amerò sempre) Kristin Scott Thomas veste i panni di un personaggio che travalica la finzione, con una intensità e una spontaneità che persino di fronte al doppiaggio farebbero applaudire a scena aperta, se il motivo delle sue peregrinazioni non imponesse un rigoroso silenzio.
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