Regia di Brad Bird vedi scheda film
Dalla sua (ri)nascita cinematografica, Mission: Impossible è un franchise esangue inutilmente griffato (e un’ancora di salvezza per l’altalenante curriculum del divo Tom Cruise), di cui nessun regista di vaglia (fatta salva qualche scheggia teorica depalmiana nel capostipite) ha mai disassato la struttura normativa e banale di macchina da boxoffice. Sulla carta, l’idea di affidarne a Brad Bird il quarto capitolo non sembrava disprezzabile; epperò da subito ci si era chiesti anche con malizioso pregiudizio aprioristico quanta libertà sarebbe stata concessa al regista dalla produzione egocentrica della star. La verifica di visione risponde inequivocabilmente: pochissima (anche se qualche neoautoria-lista vi dirà sicuramente il contrario). E minata alla base da un’estetica di blockbuster ormai frusta in un’epoca in cui perfino 007 ha abiurato la religione del gadget high tech salvifico e dell’eroe la cui inscalfibilità e resistenza al dolore bissa quella di Terminator. Per tutto il film si ammira lo sforzo - inane - di Bird per disintegrare ogni ipotesi di verosimiglianza, quasi fosse all’opera sulla versione live action di un cartoon Pixar: ma parallelamente si depreca anche l’assoluta mancanza di (auto)ironia e capacità di reinvenzione con cui il protagonista la attraversa e la gestisce. Se della “storia”, che ancora prende le mosse da tensioni stile Guerra Fredda, non importa ovviamente nulla a nessuno, ad avere la meglio è quella logora logica episodico/parossistica per cui ogni sequenza deve superare in ritmo, gigantismo e coordinamento dell’azione quella precedente. Non c’è altro. Sai che novità. Sai che diverimento.
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