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Rhino Season

Regia di Bahman Ghobadi vedi scheda film

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La recensione su Rhino Season

di OGM
8 stelle

Nel maggio del 2009 Bahman Ghobadi, regista iraniano di etnia curda, è scappato dal suo Paese, e dalle persecuzioni a cui da tempo era soggetto a causa delle sue posizioni libertarie, sostenute in aperta polemica col governo di Teheran. Questo –  che viene a distanza di tre anni da I gatti persiani -  è il suo primo film girato in esilio, tra l’Iraq e la Turchia. È ispirato alla vicenda di un personaggio reale, la cui identità, per precauzione, è coperta da uno pseudonimo. Sahel Farzan è un giovane poeta, fatto arrestare e rinchiudere dal regime khomenista. La sua storia inizia nel momento in cui, uscendo dal carcere dopo ventisette anni, scopre che alla famiglia era stata comunicata la falsa notizia della sua morte. Sua moglie Mina (Monica Bellucci) si è costruita altrove una nuova vita,  non  proprio felice,  però, se non altro, confortata dalla presenza dei suoi due figli, un ragazzo e una ragazza, che sono gemelli, benché forse non siano nati dallo stesso padre. Nel frattempo un altro uomo ha preso il posto di Sahel, ma in quel rapporto, improntato al possesso, la donna trova soltanto una sicurezza priva di amore. I tempi del sentimento sono ormai tramontati, cancellati da una separazione traumatica che è passata attraverso la straziante umiliazione della segregazione, della tortura, della privazione di ogni diritto. Per mezzo di un cupo collage di inquadrature furtive, strappate allo squallore e alla solitudine, Ghobadi ricostruisce la tragica parabola di una gioia che, improvvisamente, è stata fatta precipitare nel nulla. Quelle scene ci provengono dalle viscere di una terra martoriata: è l’abisso che si spalanca, nel cammino dell’esistenza, non appena si spegne la luce del sole. A un uomo, in un attimo, è davvero possibile rubare tutto, a cominciare dai tesori dell’anima. Le immagini sono impregnate del secco e gelido minimalismo dei versi del protagonista, scanditi dalle suggestioni di un simbolismo crudele, plasmato nella carne che soffre. Corpi di persone ed animali si contorcono di dolore o di piacere, mentre si mescolano con l’acqua, che è mare, pioggia oppure pianto. Il liquido si sostituisce all’aria per togliere il respiro. Lì dentro si soffoca, e la vista si annebbia. È lo straniamento dell’essere sradicato dalla propria realtà. Gli occhi sono costretti a guardare l’universo come da lontano, attraverso il filtro opaco del ricordo. Alla percezione viva del presente si sostituisce l’algida proiezione di una memoria date alle fiamme, e le cui ceneri si sono ormai raffreddate. Il  suo contenuto sono solo reliquie,  messe sotto vetro, ermeticamente chiuse nella loro asettica assenza di emozioni. La fisicità si è spenta, è diventata anonima, come un cadavere irriconoscibile. Sahel, per Mina, non è più nessuno. Il suo volto non è più in grado di accendere il fuoco della passione. Persino la sua pelle ha perso la capacità di trasmettere il brivido dell’intimità condivisa, coltivata di nascosto, custodita gelosamente, al riparo dall’insensibilità del mondo. È una superficie che si offre, inespressiva, come una pagina bianca. Solo un tatuaggio, che vi imprima le parole di una poesia,  può ridarle il senso compiuto di un pensiero personale ed autentico, nato da un’ispirazione ed intensamente vissuto. Rhino Season trasforma il vuoto senza rimedio in una uniforme, acutissima nota di fondo: un suono incessante e spietato, che corrode i tratti individuali delle cose, per consegnarle all’indifferenza che tutto inghiotte, livellando il bene e il male, la ragione e il torto, ogni idea e il suo contrario.

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