Regia di Ami Canaan Mann vedi scheda film
Alla presentazione a Venezia, mi pare che in molte recensioni il pensiero ricorrente riguardo a “Texas Killing Fields” fosse: “Perché in Concorso?” La domanda, all’epoca, mi era parsa pretestuosa (perché in linea di principio un film di genere non dovrebbe gareggiare per il Leone d’oro?), ma, dopo aver visto l’opera in questione, non posso che dare ragione a quelle considerazioni. “Le paludi della morte” è infatti un thriller come tanti, notturno e silenzioso, opaco e asettico, ispirato a fatti realmente accaduti e con protagonista la solita coppia di poliziotti dai caratteri contrapposti, impegnata in un’indagine pericolosa. Di mezzo anche la ex moglie di uno dei due agenti (in una sottotrama buona solo per un paio di risaputi battibecchi coniugali). Molto curata sotto il profilo tecnico (la sporca ma a tratti fin troppo buia fotografia è di Stuart Dryburgh, nomination all’Oscar per “Lezioni di piano”) l’opera lascia a desiderare su quello narrativo (la schematica e pigra sceneggiatura è di Don Ferrarone, ex agente della DEA), causa un andamento a tratti persino soporifero (ci vogliono un lungo inseguimento automobilistico e una tosta sparatoria per risvegliare l’attenzione) e un intreccio lacunoso, ben poco avvincente ed intrigante che fatica a coinvolgere a tal punto che alla fine poco o nulla interessa del presunto colpevole (e la soluzione appare anche sbrigativa e tutto sommato deludente). Evidente il tentativo di ridurre all’osso l’azione per privilegiare un maggior scavo psicologico che purtroppo però rimane solo di facciata così che le pregevoli intenzioni non trovano adeguato riscontro nei fatti con la conseguenza che non si riesce ad entrare in sintonia con personaggi senza spessore, abbastanza anonimi e convenzionali (il che, in un genere frequentato come il thriller, è piuttosto grave) e con vicende di riporto e stantie (uno dei protagonisti si prende a cuore una ragazzina vittima di una situazione familiare disastrata). Il secondo film della figlia d’arte Ami Canaan Mann, dopo il drammatico “Morning” del 2001 (più un paio di regie televisive), pur non mancando di un certo fascino visivo, non riesce dunque a lasciare il segno, ha difficoltà a trovare una sua precisa identità e utilità, sfrutta solo di striscio sia uno spettrale contesto ambientale dalle molteplici suggestioni sia una torbida vicenda dalle forti implicazioni noir che purtroppo restano sulla carta, impantanandosi in una messa in scena elegante ma corretta, sterile, senza sussulti e senza inquietudini. Confrontarsi sul medesimo terreno del padre è un’ambizione legittima e rischiosa, soprattutto se il modello di riferimento è di altissimo valore, ma il risultato convince poco e anche preso singolarmente “Le paludi della morte” ha ben poche frecce al suo arco (consoliamoci, Jennifer Lynch, nel tentativo di imitare il padre, ha realizzato quell’oscenità di “Boxing Helena”). Tra gli attori il migliore è Jeffrey Dean Morgan, anche perché alle prese con il carattere meglio delineato, mentre Sam Worthington (in me) continua a suscitare più perplessità che entusiasmi. Delittuoso invece sacrificare in un ruolo insignificante Jessica Chastain il cui personaggio, nella seconda parte del film, sparisce nel nulla. Ottima in compenso Chloë Grace Moretz, già assai apprezzata in “Kick-Ass” e “Blood story”, ma soprattutto prossima Carrie nel remake da far tremare i polsi del capolavoro depalmiano. Si rivede con piacere l’indimenticata “Laura Palmer” Sheryl Lee. In un film tremendamente serioso e canonico spicca l’unica battuta brillante, detta dal testimone che, dopo aver ritrovato la mano di una vittima, viene aggredito da uno dei due detective, pronto a chiedergli ulteriori informazioni con metodi piuttosto spicci: “Così è questa la gratitudine per avervi dato una mano?” Voto: 5 e mezzo
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