Regia di Sebastián Borensztein vedi scheda film
Un racconto cinese. Sull’assurdità della vita. Una storia vera, su quelle tragiche coincidenze che chiamiamo gli scherzi del destino, e che ribadiscono la nostra impotenza di fronte alla forza maggiore della sventura. Questo film è basato su fatti reali, ed è, cinematograficamente, una storia povera, che solo nell’istante finale riesce, sia pur timidamente, a spiccare il volo. La sua semplicità significa tono dimesso e chiarezza narrativa, che si possono interpretare come una forma di modestia nel descrivere i banali retroscena del mistero che, talvolta, si insinua, insospettato, sotto la superficie della normalità. E forse sono le nostre follie e le nostre ossessioni a spianargli la strada: sono quelle che aprono un varco al paradosso, alla stranezza, all’accettazione di ciò che appare diverso e quindi intrigante. Roberto De Cesare è un argentino di origine italiana, figlio di un emigrante fuggito dal nostro paese allo scoppio della seconda guerra mondiale. È un cinquantenne solitario, che gestisce il suo negozio di ferramenta con triste pignoleria, e nel tempo libero colleziona ritagli di giornale: ogni giorno si fa consegnare dal postino pile intere di quotidiani, che sfoglia con metodica pazienza, alla ricerca di notizie stravaganti, per lo più a carattere funesto. La macchina di una coppietta finita in un burrone vicino a Catanzaro. Un uomo sgozzato accidentalmente dal suo barbiere in un borgo medievale della Romania. Saranno forse queste letture a provocargli un perenne malumore, che lo porta a trattare male i clienti e i fornitori. Finché, nella sua bizzarra solitudine, non irrompe, per puro caso, un giovane cinese, sbarcato da una nave, e alla ricerca di uno zio che ha cambiato indirizzo ed è quindi irreperibile. Il rapporto tra i due è problematico, soprattutto per motivi di lingua, e si trascina drammaticamente nel tempo, senza che si intraveda una via d’uscita. Si direbbe la situazione ideale per dare sfogo allo spirito della commedia: un’occasione che però regia e sceneggiatura dimostrano di non saper cogliere. Il film certo ne guadagna in verosimiglianza e scorrevolezza, ma l’atmosfera rimane troppo tiepida per appassionare lo spettatore alla vicenda. Mancano lo slancio della fantasia e il calore delle emozioni, tanto che anche la grande quantità di rabbia e i piccoli accenni d’amore appaiono innaturalmente sbiaditi, come piegati ad una volontà di ridurre la psicologia dei personaggi ad una rituale ripetizione di formule stereotipate, a tratti solo velatamente caricaturali. Il percorso che prepara la tesi finale è nitidamente costruito, ma forse esageratamente asciutto: la realtà, anche quando pare governata da un disegno diabolicamente perfetto, non presenta mai dei contorni così netti, così sottili e lineari come quelli che delimitano i ruoli dei personaggi in questo film, in cui persino le bestemmie lanciate da Roberto sembrano parte di una precisa architettura scenica. In questo Cuento chino si vuole che la vita, con le sue impressionanti incongruenze, sia la grande protagonista di uno spettacolo claunesco, beffardo, destinato ad esplodere nel più grottesco dei nonsensi. Ma lo stile e la sostanza non corrispondono agli intenti, e la disciplina soffoca la libertà espressiva di un sottotesto che, ad ogni istante, preme inutilmente per rompere gli argini, e tracimare in quel pensiero fiabesco, in quella immaginazione satirica che la sequenza introduttiva sembrava preannunciare. La ricerca del senso della vita non riesce qui a creare quel colorito flusso di filosofia dilettantesca che sa fare da intelligente companatico all’amarezza: tutto è ben fatto, ma è un vero peccato che in, questo piccolo circo equestre, anche il delirio sia stato addomesticato.
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