Regia di Massimo Martelli vedi scheda film
Si sa, toccare un oggetto di culto è sempre pericoloso, si rischia il linciaggio da parte dei fedeli di quel culto o, molto più garbatamente, li lascia delusi. Il vantaggio di Bar sport è che dietro c’è Stefano Benni, che, prima di concedere l’utilizzo del suo esordio letterario, ha atteso la bellezza di trentacinque anni. La scelta, quindi, dovrebbe essere, almeno nei presupposti, ponderata. Anche perché Massimo Martelli è un regista pressoché sconosciuto, quindi caratterizzato da un proprio stile riconoscibile (ha diretto un ammirevole mediometraggio sulla strage di Bologna e la sit com Love Bugs, Muzungu con Giobbe Covatta e qualche tv movie) e slegato da esperienze importanti (tanto per intenderci, già se l’avesse fatto un Fausto Brizzi o un Carlo Vanzina sarebbe stata tutta un’altra storia).
Il film nasce perciò come una specie di opera prima (il definitivo battesimo del fuoco del bolognese Martelli), e, difatti, ha tutti i pregi e tutti i difetti degli esordi. Il background è roba da far tremare i polsi: la varia umanità raccontata da Benni in un’antologia di racconti che girano tutti attorno ad un bar di provincia. Film corale per eccellenza ha proprio in questo aspetto la sua croce e la sua delizia: tanto si riesce a dar voce a tutti (almeno quindici personaggi principali) quanto non si trova la cifra giusta per andare al di là della macchietta.
È evidente un certo gusto nel tratteggiare ogni figura, rappresentata prima di tutto con affetto, ma allo stesso tempo senza un reale approfondimento umano: tutta questa componente più intimista e malinconica (cosa che a Martelli interessava moltissimo) resta sussurrata, suggerita, ellittica. Martelli e i suoi sceneggiatori Gianandrea Pecorelli (anche produttore), Nicola Alvau e Michele Pellegrini si approcciano alla materia letteraria con una devozione assoluta ma non riescono fino in fondo a trasportare un’idea di organicità: a tratti si ha come l’idea di una serie di episodi o sketch incollati tra loro in maniera esile quanto funzionale.
Un esempio eclatante è l’ingresso in scena di Teo Teocoli, l’attempato playboy che non frequenta assiduamente il bar solo per far credere ai disillusi compagni di bevute chissà quali esperienze amorose: Teocoli interpreta il personaggio con un patetismo sincero, bagnando il naso all’indimenticabile guitto Bagini di Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene, ma il suo è un fuoco di paglia improvviso, privo della capacità di impadronirsi della narrazione con forza e vigore (per quanto Teocoli, in cinque minuti, riesca a colpire per sorprendente finezza).
Gli inserimenti animati veicolano l’idea di fondo che, di base, il film è un grande fumetto dai colori sgargianti (fotografia di Roberto Cimatti), in cui le due storie d’altri tempi narrate dal tennico Eros sono virtuosistiche e tenere, pleonastiche e godibilissime, e in cui sembra che gli esseri umani si adeguino ai cartoni animati.
C’è però del buono, in Bar sport, al di là delle scenette (ognuno sceglierà la sua preferita), come quelle zanzare di Comacchio che si librano nell’aria come le frecce tricolore o lo scotch che il povero Antonio Cornacchione tortura ogni qualvolta non riesce a far accendere l’insegna luminosa (cioè sempre). È soprattutto quel che si dice un film d’attori, con un cast pazientemente radunato attorno alla carismatica presenza di Claudio Bisio nei panni del tennico (apparentemente esperto di tutto lo scibile umano, in realtà solissimo) e dell’Onassis dell’infallibile Giuseppe Battiston (il proprietario del bar tirchissimo e romantico): fanno macchia la grande caratterista Lunetta Savino come vecchia (e Angela Finocchiaro ha fatto di meglio e potevano invecchiarla meglio), l’irritante geometra Buzzi di Vito e il cammeone di un imprevedibile Claudio Amendola alle prese con l’indimenticabile Luisona, la decana delle paste. Il migliore in campo, però, è quel mostro di Antonio Catania, capace di disegnare il suo cinico e sedentario Muzi con brio e malinconia, acidità e freddezza. Dategli un premio, per favore.
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