Regia di Vincent Paronnaud, Marjane Satrapi vedi scheda film
Dagli autori di Persepolis, una fiaba animata sull’amore, sull’arte, sulla vita. Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud ottengono la candidatura al Leone D’Oro con un delicato incanto musicale, che porta i colori delle fantasie infantili. Nasser Alì è un violinista iraniano che non può sopravvivere alla perdita del suo strumento, distrutto dalla moglie in un momento d’ira. E dunque decide di lasciarsi morire. La sua agonia è un lento affiorare dei ricordi, alcuni cupi, altri luminosi, e tutti trasfigurati in visioni da libro illustrato. Le immagini sbocciano, dal buio della sua stanza, come fiori di carta variopinta, conservando, pur nella loro eleganza, i tratti grossolani di una favola disegnata da un bambino. La storia nasce come un fumetto in bianco e nero, e sullo schermo diventa un ventaglio di suggestioni oniriche impastate nella saggia ingenuità di chi crede alle fate e ai miracoli, però diffida dei lieti fini. Ad avere la meglio, in questo caso, sono infatti gli angeli dalle ali nere, gli indovini vestiti da mendicanti, i padri padroni e le madri matrigne. Il potere che opprime e distrugge è l’unica magia invincibile, e la miopia domina la realtà restringendo il suo orizzonte entro il proprio limitatissimo campo visivo. Per questo motivo il mondo sembra così piccolo, inscatolato in un teatro di burattini nel quale l’illusione muore di asfissia e l’esistenza rimane confinata entro il raggio d’azione del male. Le pene del cuore hanno inseguito Nasser Alì in tutte le parti del globo: ha viaggiato per vent’anni, ma non ha mai dimenticato la giovane bellezza della sua Irane. Il sospiro di quel sentimento infranto l’ha raggiunto ovunque, trasfondendosi nel suono di tante melodie. Una leggerezza che, in questo film, si fa bozzetto scherzoso, tenera caricatura, fotomontaggio autoironico. La ricercata imperfezione della forma interpreta poeticamente la greve stonatura del dolore: è l’espressionismo della semplicità, che si diverte a cogliere ed ingigantire i piccoli, ordinari orrori di cui è disseminata l’avventura umana. Sotto la lente di ingrandimento del cinema, certi dettagli appaiono mostruosi: in una scena rivelatrice di questo film, il primo piano del volto del fantasma dell’opera di Rupert Julian (1925) ci ricorda che la narrazione per immagini è fatta per avvicinare le cose all’occhio e le idee al pensiero. Il fotogramma è un ritaglio e un riassunto, in cui la prospettiva si accorcia, il soggetto è messo a fuoco e lo sfondo sfuma. La parte viva del messaggio è una figura a tutto tondo che si stacca da uno scenario dipinto sul cartone: è Nasser Alì in carne ed ossa che si dimena goffamente in un universo rigido ed immobile, in cui tutto è già scritto e definito a priori. È il sognatore che lotta invano contro la predestinazione, su un tabellone in cui il percorso è obbligato e lo costringe a muoversi in circolo. Poulet aux prunes trasforma l’amarezza di un’elegia mancata nella tenue dolcezza di un sorriso; lo fa a volte con sottili pennellate di acquerello, a volte con le dita impiastricciate di vernice, ma sempre seguendo il palpito del cuore.
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