Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva) sono una coppia ultraottantenne che ha vissuto una vita appagante sul piano professionale. Due insegnanti di musica in pensione con ancora tanta voglia di andare ai concerti e coltivare l’amore per la musica. Hanno una figlia, Eva (Isabelle Huppert), anch’essa musicista, stabilitasi a Londra per lavoro e sempre in giro per i concerti insieme al marito (William Shimell). Un giorno, dopo aver assistito al concerto di Alexandre (Alexandre Tharaud), un ex allievo di Anne, la donna comincia a sentire i primi sintomi di una malattia che progressivamente finirà per minargli tutto il corpo. Georges gli resta vicino ogni attimo, con amorevole attenzione. Rimanendo custode geloso della loro rinuncia alla vita.
“Amour” (premiato a Cannes con la Pama d’oro) è un calvario laico che non fa sconti sulla precisa delineazione della sofferenza umana. Un film che vive sul rapporto speculare dei due magnifici protagonisti, sulla dolorosa accettazione della malattia per Anne, e sul dolore provocato in Georges nello scoprirsi al capolinea di una vita. Dopo il primo, necessario, ricovero all’ospedale, Anne si fa promettere dal marito che mai più sarà portata fuori dalla sua casa. L’appartamento diventa così teatro unico del loro sofferto congedo dalla vita che hanno sempre amato fare.
“Amuor” è certamente il film più intimista di Michael Haneke, quello più concentrato sulle sofferenze prodotte dagli uomini per il fatto di doversi confrontare con il sopraggiungere di un male improvviso, piuttosto che sulle disarmonie contemporanee prodotte sugli uomini da una società “malata”. In gran parte della sua filmografia, Haneke ha rappresentato il sistema sociale come un qualcosa che incombe sugli individui, colto, cioè, nella particolare attitudine a produrre effetti disturbanti sull’esistenza degli esseri umani. E lo ha fatto seguendo due direttive principali : o attraverso un discorso finemente meta-cinematografico, teso a mostrare il potenziale mistificatorio ed alienante insieme delle immagini (“Benny’s video”, “Funny Games”, “Niente da nascondere”), o puntando sulle nevrosi collettive del mondo moderno che affondano le loro radici profonde in paure e pulsioni ataviche (“Storie”, “La pianista”, ”Il tempo dei lupi”, “Il nastro bianco”). Detto altrimenti, “Amuor” è (al momento) un film abbastanza alieno all’interno della filmografia dell’autore austriaco, soprattutto con riferimento alla linea narrativa adottata, più debitrice del significato puro delle parole e di sfumature esistenzialiste rispetto ai precedenti. C’è un’insolita asciuttezza tragica a caratterizzare la messinscena, appena scossa da qualche inserto onirico e dal (solito con Haneke) finale aperto ed enigmatico. Per la verità, qualche assonanza d’atmosfera la si può trovare con “La pianista”, sia per l’ambientazione alto borghese orbitante intorno al mondo della musica classica, sia per la presenza (sempre superlativa) di Isabelle Huppert, che potrebbe essere (perché no) quella figlia pianista sempre in giro per il mondo a fare concerti. Ma tanto era aperto, urlato, esibito e “barocco” quello, tanto è chiuso, sottaciuto, essenziale e carico di un pudore sofferto questo.
Il film si apre con dei vigili che aprono una porta chiusa dall’interno, in quello che poi capiremo essere l’epilogo della vicenda. Il vero inizio della storia è a teatro, durante il concerto di Alexandre. L’unico esterno del film (insieme al ritorno a casa in pullman della coppia), perché tutto il resto si svolge all’interno della casa, per un dramma domestico che proprio nell’ostinato isolazionismo della coppia trova il senso compiuto del loro sofferto calvario. Un isolamento che fin da subito acquista un significativo valore morale equilibrando, come se si trattasse di una perfetta partitura musicale, l’orgoglio ferito della donna, che detesta farsi vedere schiava della malattia, e il rigore etico dell’uomo, che deve simulare una sicurezza che non sa di possedere per non cadere vittima dello sconforto più profondo. Perché l’amore a cui fa riferimento il titolo è quello che nasce nella complicità sottintesa dei silenzi eloquenti e delle parole non dette. Una complicità assoluta, che assorbe senza riserve anche le legittime incomprensioni e che, soprattutto, non ammette intromissioni arbitrarie (come dimostra il modo in cui verrà licenziata una badante). Tutte cose che, oltre a proiettarci dentro il dolore fisico di Anne, vissuto con simmetrica partecipazione emotiva da Georges, riflettono appieno la decisa volontà della coppia di ergere un muro contro il mondo esterno. Anche per la figlia è difficile scalfire quel muro, oltrepassarlo senza sentirsi inadeguata, anche a lei è chiesto di non intromettersi oltre il dovuto, di non impedire che si facciano le uniche cose che, date le circostanze è giusto fare (come gli rinfaccia il padre a muso duro in più circostanze). A mio avviso, c’è una scena chiave che segna l’inizio del loro distacco dal mondo esterno, ed è quella che si riferisce alla visita di Alexandre. La vista della maestra inferma tradisce un atteggiamento compassionevole da parte del ragazzo, l’imbarazzo poi si impossessa dello scambio di battute successive. Anne e Georges capiscono allora che gli occhi con cui verranno guardati non saranno più gli stessi e che le cose potranno solo peggiorare. Poco più tardi li si vedrà non avere neanche più la forza di continuare ad ascoltare su disco il concerto per piano del talentuoso pianista. Anne e Georges sono stati degli stimati maestri di musica, abituati da una vita a nutrirsi di passioni forti, a vivere con intensità il loro amore per la musica, a mettere continuamente in gioco i fondamenti delle proprie conoscenze musicali. Arrivare a ottant’anni e scoprire che non è più possibile vivere facendo le cose che si è sempre fatto, può significare confrontarsi con il fondamentale dilemma morale su quale debba essere la decisione più giusta da prendere per la vita di entrambi. A mio avviso, l’esattezza della regia di Michael Haneke sta proprio nell’aver adottato la giusta distanza tra il comportamento assunto dalla coppia di vecchi amanti e il loro travaglio fisico e morale. La macchina da presa mostra un educato pudore nel mostrare il progressivo accanimento della malattia, senza speculazioni voyeuristiche o gratuiti eccessi spettacolari. Attenta a registrare la sofferenza per come evolve, e non per quanto sa essere capace di drammatizzare la messinscena. Si aggira sorniona per l’appartamento (alla Yasujiro Ozu mi verrebbe da dire), mostrandoci tutto quanto contribuisce ad arredare una vita (libri, dischi, strumenti musicali, apparecchiature stereo, quadri, fotografie), come a voler riempire ellissi narrative attraverso una precisa esposizione degli oggetti, per darci delle notizie necessarie sul vissuto della coppia. Dandoc(m)i la conferma che ad essere rappresentata nel film è l’amore per la vita nel mentre ci viene mostrato il declino di due esistenze. Un grande film retto sulle interpretazioni superlative di due grandi vecchi come Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, e di una “comprimaria” di gran classe come Isabelle Huppert.
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