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Amour

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Amour

di EightAndHalf
9 stelle

Una seconda necessaria e masochistica visione.

Si sa quanto sia paradossale desiderare di rivedere uno dei film più angosciosi e strazianti del cinema dei novelli anni ’10, ma tutte quelle privazioni fatte al film di Haneke a causa del mancato desiderio di rivederlo e dell’essere eccessivamente estenuante rischiano di mozzare e troncare le infinite qualità che il film stesso offre. Gli spunti di riflessione che Haneke lancia sono innumerevoli, nonostante la trama elementare e lo sguardo secco e geometrico, con il quale il regista austriaco è sempre stato solito raccontare l’avvento dell’irrazionalità nella tranquillità borghese. Eppure qui Amour va ben oltre il semplice antiborghesismo o il semplice scontro razionale/irrazionale, e troneggia all’interno dell’intera filmografia di Haneke per la sua immensa capacità di essere guardato sotto plurimi punti di vista. Infatti Amour, straordinario inno poetico di amore e morte (ma eros e thanatos sono lontani anni luce), stravolge ciò che Haneke ci ha suggerito finora con i suoi capolavori, senza però fare esibizione di questo nuovo approccio alla realtà, senza far urlare i critici che potrebbero dire “Haneke ha cambiato stile”, “Haneke in realtà ha un cuore”, senza diventare un fenomeno di massa. Haneke, dal basso della sua umiltà tracotante, ha invero abbandonato la crudeltà. Mai infatti aveva empatizzato con i suoi personaggi, mai aveva fatto parlare così eloquentemente il reale (oggettivo/soggettivo), mai aveva suggerito (ma solo a chi ha desiderio di vederla) una nuova strada interpretativa del suo ultimo capolavoro. Questo perché Amour è decisamente stratificato dagli sguardi, dalle visioni, dal ruolo di noi spettatori, dallo sguardo stesso di Haneke. E’ uno scontro dicotomico e scintillante di creazioni artistiche, umori, psicologie, riflessioni, e raggiunge apici di complessità che mai il cinema di Haneke aveva suggerito seppure nell’indagine approfondita di tutti i tipi di irrazionale che potevano colpire il reale, da misteriose videocassette (e sgozzamenti improvvisi) a Apocalissi, da killer senza movente a grotteschi desideri di auto-annichilimento. Le visioni attuali e nichilistiche di Haneke si sono infisse nella nostra memoria e potevano davvero estenuare per la loro incredibile portata distruttiva, mantenendo però un paradossale compromesso col cinema tradizionale (lo stile di Haneke è secco, lineare, immobile, si fa sempre riconoscere e non si culla su trovate visive che possano risultare facilmente armoniche). Erano deliri ragionati e contemplati razionalmente, che contenevano momenti di follia pura senza farsi tentare dalla follia, sempre tenendo la distanza, sempre comprimendo i più facili desideri della provocazione. Haneke è sempre stato molto accorto, ha sempre suggerito, raramente ha mostrato. Il suo è un cinema di allusioni, riferimenti, sottili cenni, e non propone una poetica compiuta e ripetuta, altrimenti non sarebbe un reale artista del contemporaneo. Visto ciò che costringe l’arte (e la realtà), l’artista è, come Haneke, costretto a disturbare, a rivelare allo spettatore le incredibili e impensabili contraddizioni dell’esistenza. Spesso Haneke ha avuto un rispetto quasi formale per i suoi personaggi, li osservava da lontano senza mai realmente interessarsi a loro, come se stesse prendendo appunti su una razza umana in via di estinzione. Amour, che sembra tanto sulla scia di queste operazioni, in realtà scardina l’idea che si poteva avere del cinema di Haneke, non solo perché idealmente lo conclude raggiungendo zenit di intollerabilità inauditi e tensione angosciosa raramente vista con altrettanta forza, ma perché lo riflette come in uno specchio. E riflettendo il cinema di Haneke, riflette Haneke stesso. A una lettura che vuole essere quasi entomologica come potrebbe altresì definirsi come lo sguardo stesso del regista austriaco, Amour è una vera e propria seduta psicanalitica, in cui Haneke pone se stesso protagonista e racconta il peccato originale del suo cinema, l’irrompere dell’irrazionalità, mostrando come la vita vera, anche se non razionalizzata in senso borghese, possa essere un riparo, benché nell’irrazionalità. Per intenderci, i protagonisti di Amour non sono la famigliola tranquilla di Funny Games o Il tempo dei lupi, non vanno incontro a una fredda distruzione come in Der Seibente Kontinent o Benny’s Video (e mettiamoci anche Caché), ma sono uomini veri e anche potenzialmente (e attualmente) sinceri, dotati di sentimenti e di amore vero, di capacità emozionali che raramente abbiamo visto altrettanto in azioni se non per banali piagnistei familiari che erano anche distruzione di certezze. Qui la vita è bersagliata continuamente dall’irrazionale: l’arte della musica classica, la memoria, l’amore, gli affetti, gli odii. E non possono essere considerati irrazionali negativi e distruttivi, ma sono irrazionali funzionali, luoghi di sana incomprensione in cui l’uomo è in grado di spaziare, e dove può vivere, effettivamente. Non possiamo escludere che Haneke non lo sapesse prima, ma non si andava mai oltre le certezze affettuose e prevedibili della madre che vuole bene al figlio o del marito che vuole bene alla moglie. Qui, oltre all’amore vero, ci sono molti altri aspetti. Haneke si rivela, in primis, assai più problematico, discepolo di un’esperienza vitale che non è soltanto calcolato sguardo carico di sadismo, ma affettuoso sguardo nell’immane condizione dell’essere umano. Ecco dove Haneke cresce ancora di più, in Amour: l’irrazionalità non è più una forza esterna, che viene da fuori e irrompe (giovani armati, Apocalissi, videocassette, anche semplicemente la casualità in Code Inconnu o 71 frammenti di una cronologia del caso), ma è intrinseco all’esistenza stessa, ed è una cosa che conosciamo fin dall’inizio: la Morte. E non la semplice Morte, di cui possiamo essere consapevoli e che ci può fare paura nel suo essere chiusa e asfittica come una casa sbarrata e invalicabile, con porte sigillate dallo scotch, ma la Malattia e il Delirio che precedono la Morte, il modo di Morire. E qui ci accorgiamo che la nostra vita è la nostra prima condanna a morte. L’uomo è straziato e decimato in partenza, senza ricorrere a forze violente esterne. Ecco che Anne si ammala, e non è né un virus né un contagio. È la vecchiaia, quella vecchia brutta bestia che ci fa afferrare l’attimo fuggente anche se ogni volta che lo vogliamo cogliere esso è già fuggito. L’inconoscibilità dell’attimo. Così Haneke si è chiuso in una casa, in un essere umano, è penetrato nell’esistenza e ne ha scoperto i nervi, ne ha rilevato l’essenza autodistruttiva. Il sadismo è della vita stessa.

Ma ancora la consapevolezza del “naturale” immettersi dell’irrazionalità e lo scontro fra irrazionalità “positiva” e irrazionalità “negativa” sono conclusioni che si affiancano a quell’angoscia che vive sulla pelle degli spettatori e che tanto distanzia, ma non spiega. Non perché non debba spiegare, ma perché questi punti suddetti sono semplici appendici ad essa. Non proviamo angoscia più che altrove nel suo cinema solo perché vivremo necessariamente quell’irrazionalità naturale, o magari l’abbiamo già vissuta, ma perché c’è un’altra componente fondamentale che ci costringe all’interno di uno spazio, di uno schermo, di una proiezione: la geometria degli sguardi hanekiani. La realtà è ancora più vera che nei suoi altri film: perché mantiene la stessa geometria? Perché tale sadismo nei confronti dei suoi primi personaggi veri? Come fa ad essere scientifico? La risposta è una sola: non lo è. Da qui i sogni “veri” di Georges, che non sono sperimentazioni sadiche alla Funny Games, ma sinceri traumi, angosce private, paure personali, il che ci proietta, in occasione di una consigliatissima seconda visione, nei meandri di un film che non è semplice angoscia esistenziale, ma che probabilmente nasconde tantissimi segreti proprio sul cinema di Haneke. Amour è la summa del suo cinema, Haneke è il suo cinema. Dunque Amour è summa di Haneke. E quando noi osserviamo il pubblico nel teatro (fra cui ci sono anche Georges e Anne) non stiamo facendo altro che osservare con l’occhio del vero Haneke, non perché ci interessi immedesimarci in lui, ma perché vogliamo capire che la gente lì sta guardando proprio lui, l’attenzione è su di lui. Noi guardiamo noi stessi che guardiamo Haneke (che con la sua cinepresa non casualmente ci osserva).

Il regista austriaco maschera con dissimulazione e grandissima capacità cinematografica il suo ruolo predominante all’interno del film, benché lo suggerisca più volte e cerchi di renderlo evidente, con il timore però di essere scoperto. Perché Haneke ha uno sguardo sadico solo a livello formale, è la sua scorza, la sua pellaccia dura, che vuole mettersi continuamente alla prova, vuole testare la propria sopravvivenza. Per questo Amour potrebbe essere il film-testamento di Haneke (ma speriamo di no): è il suo suicidio artistico, ma anche la sua egoistica e comprensibilissima liberazione. Il suo è un film che scorre graduale, che offre notevoli sprazzi di umanità alle prese con forze quasi soprannaturali, e una conseguente demolizione della realtà stessa, almeno della realtà dei due protagonisti, che convivono, come già detto, con le loro positive irrazionalità, nell’amore e nella memoria di qualche film del passato che attualmente non ricordiamo più ma di cui ci ricordiamo la sensazione che abbiamo provato (e se questo film, come potrebbe essere, non è proprio Amour, è il film che inspira Amour, il film che ha inspirato Haneke). In questo senso Haneke è Georges, e il momento in cui Georges è nel pubblico anche Haneke sta nel pubblico, perché sta in mezzo alla vita delle positive irrazionalità. Haneke è tra di noi, Haneke guarda il film. Haneke guarda sé stesso. Amour. Ciò che lo vede attaccato al passato è ciò che lo rendeva uomo di sana vitalità, e che, dopo l’immettersi dell’irrazionale, è andato perduto. Anne si ammalerà, Georges la guarderà ammalarsi, la aiuterà come meglio può. Come l’irrazionale negativo distrugge la razionalità (o l’irrazionalità positiva dell’amore), così la malattia di Anne distrugge le posizioni precedenti, la partecipazione comune a una semplice massa di esseri umani che vivono. L’irrazionale ha diviso, ha costretto Haneke in Georges e la storia raccontata in sé e per sé in Anne, che sarà in se stessa la storia pura e semplice che Haneke racconta. Georges e Anne si amano come un artista ama una storia che racconta. Georges non piange né si dispera mai, o meglio, si dispera dentro, la sua pellaccia rimane dura proprio come se fosse Haneke. Aiuta la moglie, ma non può aiutarla: lo sguardo di Haneke non è più sadico ma impotente. Così inizia l’inferno della vita e della nuova consapevolezza artistica di Haneke. Il fatto che l’irrazionale provenga dalla realtà non è punto di arrivo dell’irrazionalità degli altri film di Haneke, ma il punto di partenza.

Col procedere della malattia di Anne entriamo in contatto con altra umanità accessoria, incarnazione dei vari tipi di irrazionalità (l’alunno quella positiva dell’arte, le badanti quella negativa della Morte e della Malattia). Ma il personaggio fondamentale è quello della figlia, una superba Isabelle Huppert. Ancora più impotente del padre, lentamente si rende conto di cosa sta accadendo, e di come la madre sia destinata a morire, dopo un breve inizio in cui lei stessa, Eva, sembra più fredda che mai. Questo perché a poco a poco lei stessa si angoscia e si dispera, cerca di mantenere il controllo ma per conto suo esplode, si dimena, si arrabbia perché niente migliora. La figlia Eva è il pubblico. La dimensione simbolica di Amour si dota di un’ulteriore pedina, noi siamo dentro il film, perché Haneke sta osservando allo stesso tempo se stesso, la storia e noi che lo guardiamo. Il suo è un progetto meta-cinematografico e meta-artistico, una rielaborazione della propria arte e del modo in cui si approccia al pubblico. Amour, dalla sua sincerità minimalista, diventa uno dei film più complessi mai portati sugli schermi, oltre a una summa di grande cinema. Addirittura, anche a voler forzare, negli improvvisi fermi immagine di alcuni dipinti ci si sente quasi dentro il sokuroviano Hubert Robert, la realtà e il nostro sguardo si confondono con il soggetto artistico perché abbiamo desiderio che si confondano. Ma Amour, nella sua portata distruttiva, non è altrettanto artistico? L’arte si è inquinata di irrazionalità negativa, Haneke è inquinamento rassegnato e portatore di consapevolezza dell’arte cinematografica.

Il film continua straziante a una prima visione, denso di rimandi ad una seconda. Georges/Haneke ha il desiderio sfrontato di ricreare le sue sensibilità e i suoi sogni (Anne suona il pianoforte), ma non riesce, almeno per il momento. È tutto chiuso nell’appartamento, tutto serrato. Non è Anne a suonare, ma le casse acustiche. Allo stesso tempo, infido, anche attraverso il sogno, l’incubo dell’irrazionale giunge con la mano che lo ammutolisce: è la mano di Anne? È la storia, ovvero la realtà, che lui racconta, ad averlo ammutolito? La sua capacità di fare arte e di dire l’arte, l’arte però intesa come irrazionalità positiva, è ammutolita, sedata, dalla realtà? È la realtà che è cruda, mica lui. Lui non può fare altro che raccontarla, perché è impotente. Così, come un fatto vero come un altro, nella casa entra un piccione. Anne è ormai in preda al delirio, il piccione è l’anima di Anne, quella parte di amore positivo che stava prima e che ora non c’è più. Il piccione è la storia che dovrà essere raccontata. Ma noi lo vediamo come fatto reale, lo cacciamo via. Avremo occasione di riprenderlo per farne un’opera d’arte. Intanto assistiamo la nostra moglie/storia, che soffre, si dimena, smette di parlare, vuole morire. L’arte del reale soffre così tanto da non voler nemmeno bere. Haneke è costretto a soffocarla. E noi facciamo fatica a comprendere, nella scorza esterna di fredda e immacolata angoscia. Haneke vuole soffocare la sua arte pessimista, che soffre e non finisce mai. Prima prova a raccontare le sue storia irrazionalmente positive, ma la realtà trionfa. I suoi momenti solitari, dopo il soffocamento, gli permettono di iniziare di nuovo, di cominciare da capo.

Spesso ricorre nel film l’acqua: il rubinetto, il lavandino riempito di fiori, l’acqua del pavimento dell’enorme pianerottolo nel sogno, l’acqua che infastidisce un’Anne ormai impazzita. Forse la realtà sta per farci affogare, e ci confonde. Un rubinetto chiuso è Anne che si è risvegliata, un pianerottolo pieno d’acqua è un incubo; un lavandino pieno di fiori sulla superficie è il canto funebre di una morte, l’acqua che infastidisce Anne malata è anch’essa propria di quell’incubo. Sono tutte dimensioni collegate, da cui Haneke entra ed esce, come se vi si affondasse svariate volte, costretto però a tornare in superficie per prendere aria. E quando riesce a svuotare tutta la vasca, o magari a trovare una maschera per respirare, riesce a liberarsi di quell’arte negativa, cattura il piccione e l’anima positiva di Anne, la trascrive. L’arte diventa positiva per espulsione dei lati negativi (il peso della realtà), e Georges/Haneke può elaborare la sua storia e scappare con Anne fuori, nella normalità, magari per sentirsi un concerto, risentendosi finalmente vivo. Ma noi siamo il pubblico, entriamo con Eva nella casa alla fine, e non è tutto chiuso. È tutto spalancato. Nell’immobilità una celatissima catarsi. L’arte si è suicidata per risorgere, è tutto aperto alla mente di Haneke. E a questo punto lui vuole essere felice con l’arte, noi possiamo fermarci in mezzo alla casa e non comprendere. La felicità resta fuori dal film ma sta in Haneke. Ecco che i titoli di coda arrivano improvvisi e silenziosi, agghiaccianti. L’arte di Amour è disturbo liberatorio, quella luce alla fine può non essere notata o può essere estrema imprevedibile catarsi.

Amour è la riflessione su se stesso di Haneke, che evita di fare il von Trier esprimendo comunque (e in maniera umile ma potentissima) personali rimorsi, paure private, sedate emozioni. Poi si accorge però che ha le stesse emozioni di tutti, e Amour così può diventare universale.

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