Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Forse è esagerato definire "minore" quest'ultima fatica di Haneke, ma l'impressione è che "Amour" sia meno riuscito di capolavori come "Niente da nascondere", "Storie", "La pianista", "Nastro bianco". Ci sta: difficile per chiunque ripetersi a quei livelli. Haneke, controverso quanto volete, ha fatto la Storia del cinema negli anni Zero. Che sia in grado di farla anche negli anni Dieci è tutto da vedere e "Amour", in questo senso, lascia un grande punto interrogativo. Sin dalle prime inquadrature, si presenta come un riepilogo di modi haneke-iani (dalla paradossale inquadratura del pubblico del cinema, indistinta folla in cui si mimetizzano i due protagonisti, come i due ragazzini nel finale di "Niente da nascondere", alla claustrofobia di interni scandagliati con chirurgici piani-sequenza, fino al pullman in cui vengono stipate esistenze indifferenti l'un l'altra, come in "Storie"). Nel suo sviluppo, ricorda la radicalità gelida e opprimente della "Pianista", concentrato com'è sull'intimità della coppia, su tutto ciò che, per pudore o superficialità, di solito non viene mostrato nei film: il paradosso di Haneke sta proprio in questa attitudine a scavare nei segreti più inconfessabili dei personaggi, a fronte di una narrazione ellittica ed elusiva. C'è sempre qualcosa di "troppo detto/mostrato", oltre al "non detto/mostrato" nei film di Haneke. Da un lato non c'è "niente da nascondere" e l'abisso morale viene spiattellato senza filtri in faccia allo spettatore; a quest'ultimo, d'altro canto, vengono però nascosti ("cachè") tasselli forse fondamentali per comprendere il "senso" del tutto. Per quanto Haneke ci costringa ad immergerci nella sofferta quotidianità dei due anziani amanti, i loro sentimenti reciproci, le loro intenzioni, i loro pensieri rimangono un mistero da interpretare. Quello di Haneke si conferma un cinema criptico, a fronte della trasparenza teoricamente garantita da uno sguardo "neutro" ed asettico: ancora una volta, un cinema di "codici sconosciuti" (come recitava in titolo orignale di "Storie"), di asimmetrie informative, di relazioni sbilanciate, di discorsi contraddittori, di gesti insensati. Ancora una volta è la banalità della violenza a fare capolino: violenza intesa in senso ampio, anche estetico, come quella veicolata dallo strazio di due corpi in affanno nel quadro rassicurante di un accogliente appartamento o quella suggerita dall'immagine simbolica e disturbante di un piccione entrato furtivamente in casa. Come in "Niente da nascondere", troviamo un inserto onirico, ben congegnato ed inquietante, il ricorrere di reminescenze infantili, un finale aperto e visionario, ma soprattutto la metafora ornitologica di cui sopra (nell'altro film, era un pollo sgozzato). Quello che penalizza la riuscita complessiva di un'opera comunque da vedere e rivedere, è una maggior dispersività, a livello di sceneggiatura, rispetto alle precedenti, asciutte, concise prove dell'autore austriaco, il cui rigore nella messinscena è fuori discussione. E forse, paradossalmente, a creare qualche frizione con lo sguardo haneke-iano è la prova mostruosa di un trio d'attori fra i migliori che si potesse riunire: una gara di bravura, vinta in volata dalla Riva, che rischia di far diventare "Amour" un "film di attori" anzichè d'autore. Poco male: si può anche accettare, per una volta, che un regista dei più intransigenti si incanti (e si perda) di fronte alla classe genuina e viscerale di simili interpreti.
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