Regia di Michael Haneke vedi scheda film
ATTENZIONE, L’OPINIONE È PURO “SPOILERAGGIO”
Esistono film in cui un "gesto" finale dà senso all'intera opera, a volte ribaltandone i presupposti, altre, chiarificandone determinati aspetti, oppure gettando ombre sull’intero film. Penso, ad esempio, a Twenynine Palms di Bruno Dumont, a quella mano omicida (così bressoniana, perché priva di speranza) che si abbatte su uno dei due protagonisti del film. In Amour, è proprio dal gesto finale di Goerges di uccidere la propria moglie, dalla sua intensità, che dobbiamo partire per comprendere il pensiero di Haneke rispetto al film. Un film che, per chi scrive, non segna nessun passaggio o superamento nella poetica del regista austriaco, come invece è stato più volte riscontrato in molte recensioni. Chi scrive di un Haneke più “caldo”, “meno duro del solito”, “che si concede al sentimento” [magari proprio all’«Amore»] credo stia percorrendo una strada sbagliata nel giudizio di questo film. Innanzitutto, Amour non è un film sull’amore. Piuttosto [e cito Alessiakeis, con cui ho potuto discutere il film] «un film sulle conseguenze del rapporto amoroso e sui legami in generale». La provocazione di Haneke – perché è ben presente anche in questo film, e lo dico giusto per ribadire la continuità con le altre opere del regista – sta nel fatto che non esprima alcun giudizio su quel gesto, - che è, appunto, una conseguenza di un legame amoroso –, ma ce ne mostri unicamente la sua brutalità – appunto, perché un legame è sempre qualcosa (anche) di brutale. Quello che non ci permette Haneke (ed è qui la provocazione) è di capire come questo gesto possa essere inteso nel contesto filmico. L’omicidio che commette Georges è di liberazione, di disperazione o cos’altro? E Anne, voleva veramente morire? I suoi sussulti durante la morte dimostrano forse il contrario? Il regista austriaco, che per tutto il film non ha cercato alcuna empatia con i suoi personaggi (ma questo non vuol dire che noi non possiamo provarla), lascia “aperto” il senso di questo gesto finale, ma non la sua “intensità”: un gesto violentissimo. La posizione di Haneke, diversamente da un regista come Clint Eastwood che, da poeta, impone la sua visione delle cose (Million Dollar Baby), è, ancora una volta, quella glaciale del chirurgo. Egli seziona spazi ed ambienti, rigira la classicità del mostrato e del mostrabile, proprio come un dottore aprirebbe un corpo su di un letto d’ospedale. La sequenza del teatro ce lo anticipa.
Ribaltando Funny Games (ma mantenendone la provocazione), in cui l’orrore era fuori campo, in Amour Haneke porta violentemente «in campo» tutto il rimosso e l’orrore del quotidiano, quello che noi non vogliamo vedere: la malattia, la vecchiaia, la morte.
Nota a margine: non ho dato 5 stelle al film, come forse meriterebbe, solo perché è un film troppo respingente, che di sicuro non vorrò mai più rivedere.
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