Regia di Michael Haneke vedi scheda film
È ancora una volta la casa lo scenario dove si consumano le tragedie del cinema di Haneke: dopo quella profanata di Funny games, quella claustrofobica de La pianista, quella spiata di Niente da nascondere e quella patriarcale de Il nastro bianco, con Amour il grande appartamento parigino di una coppia di ottuagenari, insegnanti di musica ormai in pensione, fa da cornice al lento e inesorabile declino di lei (Riva). Il film parte dalla fine, la donna distesa sul letto ormai morta e cosparsa di fiori, ma la vera tragedia ha inizio con un momento di vuoto, di assenza: è il sintomo di un ictus che la porterà a perdere mobilità, autonomia, linguaggio. Lui (Trintignant: in Italia non lo si vedeva dai tempi di Film rosso, anno di grazia 1994) la assiste con caparbietà; quando le forze si affievoliscono assume un'infermiera a ore, poi una seconda, ma il percorso è irreversibile e le sporadiche visite di una figlia troppo occupata (Huppert), che a ogni occasione pontifica, non aiutano l'uomo.
Con Amour, Haneke ci racconta l'amore oblativo nella sua quintessenza (qualcosa del genere si era visto in Away from her), scaraventando lo spettatore nella potenza - psicologica, fisica e morale - di una sofferenza che si acuisce con il passare dei giorni, andando di pari passo con una capacità di amare che diventa eroica, pur dilaniata dal desiderio sopito di un ritorno alla propria libertà personale e contagiata dall'abitudine, come nelle diverse reazioni all'intrusione di un piccione in casa, gioiello metaforico del film. È cinema scarnificato, essenziale, realizzato per intero in interni, quasi senza musica e con inquadrature fisse, molte ellissi narrative e diversi fuori scena come è da sempre nello stile di questo indiscutibile Maestro. Strameritato il massimo alloro conquistato al festival di Cannes.
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