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Amour

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Amour

di alan smithee
8 stelle

Seconda Palma d’Oro a pochi anni dal magnifico "Nastro Bianco", per un regista tra i più duri, spietati e meno consolatori del panorama cinematografico mondiale: un personaggio che inquieta, che fa paura già anche solo nell’aspetto, severo, fiero e poco propenso al sorriso; un cineasta il cui stile controverso, gelido, ossessivo, asciutto e senza la minima concessione a leggerezze di toni e predisposizione ad una serenità anche effimera, riflette la personale e non sempre condivisibile concezione di un mondo creato e governato da leggi brutali e impossibili da piegare a proprio personale giovamento.
Una personalità forte che esprime la sua arte, il suo stile freddo ma esemplare e stilisticamente molto stimolante, tramite ossessioni spesso estreme (pedinamento, morte, gioco crudele vittima/carnefice, ineluttabilità tragica dei destini umani) di una umanità feroce che non riesce più a contenere istinti brutali e animaleschi alimentati dalla disperazione, dalla noia, dalla incapacità di credere in un riscatto ultraterreno: elementi che tornano, pur un po’ smussati - questa volta - da una tenerezza quasi inconsueta per l’autore; un affetto che regola un rapporto di coppia che valica con un certo orgoglio i cinquant’anni di durata, e che sta al centro di questo buon film imperniato sull’inesorabile decadimento del corpo, del progressivo ineluttabile disgregamento di una vita oltre la quale c’è il vuoto, l’incognito, un angoscioso inconsolabile baratro senza uscita.
L’abilità del regista si intravede anche nella scelta di non scandirci il percorso di un’agonia annunciata secondo un calvario progressivo dello stato della malattia, ma affrontando le varie tappe dello stadio ineluttabile ed irreversibile, lasciando spazio, questa volta – ripeto – in modo piuttosto inconsueto – alla tenerezza di un rapporto amoroso che evolve con l’aggravarsi degli avvenimenti. L’ agiata coppia di anziani protagonista della vicenda, condivide con apparente serenità una vecchiaia facilitata dalle possibilità economiche e da una cultura da sempre loro appannaggio, che consente un lucido proseguimento delle potenzialità intellettuali, a contrastare l’inevitabile progressivo decadimento delle capacità fisiche.
L’improvviso peggioramento delle condizioni della moglie, in seguito alle complicazioni insorte dopo una operazione tutto sommato di routine alla carotide che la lascia paralizzata dal lato destro, spinge l’uomo ad accogliere le richieste di quest’ultima, timorosa e restia a frequentare ambienti ospedalieri, a proseguire cure sempre più ostinate e necessarie nell’elegante spazioso appartamento che da anni i coniugi condividono in una vita di coppia che il nuovo pesante ostacolo renderà più complice e teneramente appassionata.
Ma l’anziano dovrà presto fare i conti con un progressivo peggioramento delle condizioni che renderà più complicata e sfiancante, oltre che dolorosa, la gestione dell’invalida, spingendolo ad una estrema, sofferta e certo anche impulsiva decisione finale, che un incipit inquietante ci anticipa nelle sue drammatiche conseguenze finali.
Haneke prosegue il suo percorso torvo e complesso nei meandri della disperazione umana, facendoci intravedere il suo genio straordinario in almeno una sequenza magistrale: quella dell’incubo del vecchio Trintignant che, accorso in sogno (ma ce ne accorgeremo solo dopo) ad aprire la porta d’ingresso all’udire bussare, non trova nessuno nell’atrio e si inoltra guardingo verso i meandri cupi, freddi ed inquietanti del proprio pianerottolo, accorgendosi ad un certo punto di avere i piedi immersi nell’acqua gelida, mentre una mano misteriosa da dietro gli blocca il viso: un gran momento di cinema e di emozione visiva e mentale.
Per il resto il film si fa forza sulla straordinaria interpretazione dei due interpreti (curiosamente accomunati dall’aver lavorato nell’ultima splendida trilogia di Kieslowski, Emmanuelle Riva nel primo “Film Blu”, Jean Louis Trintignant come protagonista dell’ultimo “Film Rosso”), mentre al regista si potrebbe far osservare (se solo se ne avesse il coraggio) che il percorso degenerativo di una sofferenza progressiva e senza rimedio ha ben peggiori e drammatiche situazioni limite, se solo il cineasta si sforzasse – limite riscontrabile oggi anche in molti suoi illustri colleghi – a prendere in considerazione anche e per una volta ceti sociali più ordinari, meno aristocratici; realtà queste anche solo statisticamente più ricorrenti, in cui non esistono le possibilità materiali di prendersi carico di una o più badanti; dove non si ha la possibilità di gestire la cura della malattia nell’ambiente ovattato di un appartamento enorme ed accogliente, dove le difficoltà economiche finirebbero comunque per minare una relazione che invece, qui nel film, è sempre contraddistinta da un amore tenero ed assoluto che mal si coniuga con la decisione fatale e repentina del vecchio.
Forse essere un autore completo di cinema oggi dovrebbe più spesso comportare il dovere, almeno ogni tanto, di tornare ad uno stile più realista che rispecchi maggiormente le condizioni, le paure, quelle vere, di  un ceto che possa meglio rappresentare le dinamiche della società che ci circonda, senza dover arroccarsi necessariamente su posizioni e situazioni d’altri tempi, su ranghi sociali che non rispecchiano più minimamente le attuali posizioni sociali di massa, ora più che mai in un’epoca inginocchiata ad una crisi che non ha precedenti e che può spingere davvero e molto più verosimilmente, anche nel caso che ci occupa, a comportamenti e scelte tragiche come quelle a cui il film conduce il sofferto protagonista.
Questo è il sentimento contrastato che ho provato vedendo un film comunque molto ben fatto, forse più da premio alle interpretazioni che da Palma d’Oro, avendo senza dubbio il merito, fra gli altri, di averci fatto ritrovare, dopo molti anni di assenza per travagli e disgrazie degne di un film “alla Haneke”, un grandissimo Trintignant, interprete ideale e prescelto del migliore cinema europeo degli ultimi cinquant’anni.
 
     

 

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Ultimi commenti

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  2. zombi
    di zombi

    ciao alan, anche io ho avuto quella fastidiosa sensazione. mi sono detto l'ennesimo dolore e sacrificio in una famiglia ricca. abbiamo bisogno di una rappresentazione altrettanto alta ma che tocchi più da vicino la grande massa.

  3. alan smithee
    di alan smithee

    Si caro zombie in effetti Haneke è come se non si rendesse conto che i suoi protagonisti sono dei privilegiati, e non lo sfiora minimamente il fatto che certe scelte estreme forse sono un lusso che probabilmente chi appartiene ad un ceto piu' povero non puo' permettersi ne' addirittura preventivare. Questa fastidiosa senzazione non toglie nulla o comunque poco all'eccellenza della direzione e al rigore magistrale di una regia che rendono Haneke un autore tra i piu' meritatamente lodati. Pero' mi piace che qualcuno provi come me questo leggero senso di fastidio e supporti questa mia epidermica sensazione. Un caro saluto. Alan.

  4. zombi
    di zombi

    essendoci passato con la nonna, l'ho provato quasi all'inizio- poi come dici tu il film è un gran film e da difendere a spada tratta.

  5. (spopola) 1726792
    di (spopola) 1726792

    Io sono invece fermamente convinto che quella di optare per una coppia benestante e quindi "privilegiata", sia stata una scelta consapevole. Lo si evince a mio avviso anche da ciò che ha dichiarato fra le altre cose, nel corso di un'intervista rilasciata a Anna Maria Pasetti: "Non volevo fare un dramma sociale, ecco la scelta di evitare gli ospedali. E' chiaro che solo i benestanti - come i miei protagonisti - possono permettersi l'assistenza sanitaria in casa. Ma questo privilegio non li sottrae dalla sofferenza. Questo concetto volevo fosse ben chiaro".

  6. alan smithee
    di alan smithee

    Beh si Valerio di fronte ad una tale dichiarazione, l'intento del regista e' indubbiamente chiaro ed evidente. Nulla mi toglie tuttavia la convinzione che certe scelte fatali prese deliberatamente siano pero' piu' la conseguenza di situazioni comunque privilegiate; posizioni di benessere in cui la mente di chi e' colpito dalla disgrazia e quella di chi subisce lo shock di una perdita progressiva delle facolta' della persona amata, hanno piu' possibilita' di una persona qualunque di escogitare rimedi fatali e definitivi. Ma tutto cio' non e' certo una pecca ne' tantomeno una leggerezza registica; anzi una scelta premeditata, come hai riportato poco sopra. Ho peraltro apprezzato molto la scelta inconsueta del regista di evitare tutta la trafila medica per concentrarsi sullo splendido rapporto di coppia. Un caro saluto ad entrambi. Fabio.

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