Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
La vita di John Edgar Hoover, dal 1919 fino alla morte nel 1972, si identifica con la sua carriera all’interno del FBI: un uomo paranoico, ossessionato dai comunisti, sociopatico, sessualmente represso (causa una terrificante madre castratrice), vanesio, collezionista di dossier confidenziali, che ha usato il rapimento Lindbergh per ottenere maggiori poteri. Eastwood imbastisce la solita parabola su un individuo moralmente riprovevole, che però si trova a combattere dalla parte giusta (ossia in difesa dei sacri Valori Americani): perciò si compiace di sottolineare le miserie umane del protagonista, per ridurre la sua statura individuale e contestualmente per esaltare la sua funzione; azzarda una ripresa di L’uomo che uccise Liberty Valance nel sottofinale, ma poi la corregge subito con un finale in stile Il massacro di Fort Apache. Un film cupo e necrofilo, dove la fedele segretaria e il braccio destro, inizialmente persone normali, si ritrovano invecchiati, spenti, avvizziti (caratteristiche accentuate da un trucco estremamente vistoso) dopo decenni di pericolosa vicinanza a un pazzo. A un Eastwood non si può onestamente chiedere più di così, e del resto il personaggio di Hoover si presta a operazioni di questo tipo: per un attacco diretto, magari con la regia di Oliver Stone, sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile.
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