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J. Edgar

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su J. Edgar

di chinaski
6 stelle


Il potere, ancora una volta. E le sue maschere. J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI per quasi quattro decenni, si muove tra la gestione del potere e la repressione del suo essere. E’ nella dialettica tra i bisogni (forse inconfessabili) del proprio io e una visione politica e sociale repressiva, che si sviluppa, all’interno dell’ultimo film di Clint Eastwood, la figura di Hoover. Paranoico e ossessivo, perennemente confuso sulla propria identità sessuale, legato in maniera morbosa alla madre e al proprio lavoro, incapace di possedere una vita privata che si allontani dalle dinamiche del suo bureau, Hoover sembra uno di quegli uomini che riversa nel proprio ambiente lavorativo tutte le mancanze della sua vita interiore.
Il problema è che questo uomo ha manovrato, per decenni, le sorti degli Stati Uniti e quindi del mondo intero. Eastwood lo rappresenta attraverso una narrazione che prosegue senza interruzioni, tra passato e presente, realtà e finzione. Perché lo stesso Hoover fa della sua vita un racconto inventato, fatto di arresti inesistenti e glorie immeritate. E sono poi i comics e il cinema (tra i mezzi più diffusi e popolari durante tutti i suoi mandati) a prendere in carico le sue gesta e quelle del suo bureau e a trasformarle in storie per il pubblico. Significativo è il passaggio di gradimento delle persone, negli anni trenta, dai gangster movie (Nemico Pubblico) a quelli che esaltano il lavoro della polizia (G-Men). E’ la rappresentazione, il doppio proiettato su uno schermo, a creare i nuovi eroi di una mitologia pagana a cui i fan adoranti possano sacrificare il proprio tempo e soprattutto il proprio denaro. La propaganda è nelle immagini, mai nei fatti.
E Hoover racconta la sua storia e quella dell’FBI a diversi agenti che la battono a macchina vicino alla sua scrivania, anticomunista convinto e paranoico Hoover fa di tutto per scongiurare l’invasione bolscevica del suo Paese, poi lotta contro il crimine organizzato e perfeziona una metodologia scientifica di indagine poliziesca. E infine la vecchiaia e forse la presa di coscienza di quanto la sua vita, utilizzata solo nella ricerca esteriore del potere e della grandezza, non sia mai stata usata per guardarsi dentro. Davanti ad uno specchio, con i vestiti della madre appena morta addosso Hoover chiede a se stesso di essere forte. L’immagine riflessa non è quella di un film o di un fumetto, è la sua. Ed è di un fragilità disarmante.
L’amore come ultimo pensiero. La morte che avanza, entra nella sua stanza che sembra un museo o un reliquiario e lo cattura. Nel prologo di Underworld di Don De Lillo, Hoover è alla partita tra Giants e Dodgers e stringe nelle mani le pagine di un giornale, strappate da qualche tifoso e buttate via. In quelle pagine c’è la riproduzione  di un quadro di Bruegel, Il Trionfo della Morte. E tutto il film di Eastwood è pervaso proprio da questa presenza. La morte. E le sue figure, i suoi personaggi, svaniscono come fantasmi tra le pagine della Storia. Un’ennesima testimonianza dell’illusorietà del potere e della vita umana (ma la vetta toccata da Sokurov, con il suo Faust, rimane irraggiungibile). Alla fine, di noi e delle nostre azioni, rimarrà solo un debole ricordo. E forse, neanche più quello.

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