Regia di William Friedkin vedi scheda film
Sembra un film dei fratelli Coen. Non l’avrei mai detto. Mi sarei aspettato un thriller morboso, dalla tensione strisciante e dalla violenza sotterranea pronta a deflagrare da un momento all’altro. E invece, ecco un noir sovra-eccitato (sin dall’incipit burrascoso) pronto a sfociare nel più sanguinolento pulp tarantiniano in una seconda parte che culmina in un parossistico e caotico massacro finale. E’ un ritratto di una America balorda e miserabile, senza più nemmeno un vago residuo di un valore o di un sentimento domestico. Madre, padre, figlio, figlia sono in questo film vocaboli svuotati di tutto il loro peso affettivo, diventando meri strumenti di profitto. Una madre può crepare per mano di un sadico sbirro-sicario; un figlio essere picchiato a sangue dagli sgherri di un boss della droga; una matrigna massacrata; un figlia vergine venduta come dote: chi se ne fotte. Forse resta solo l’amore fraterno a mantenere accesa una luce: ma l’attaccamento fra Chris e Dottie è troppo debole e opportunistico per risultare solido e credibile (e le scelte di regia sottolineano la vacuità di tale sentimento). E’ un film spietato, nerissimo, di una crudeltà senza scampo, ancorato ad una ironia sardonica che non arretra davanti a niente: il trionfo di un cinismo con cui il vecchio Friedkin si allinea, con indubbia classe, alle nuove leve dell’agonizzante cinema USA. C’è irrisione, compiacimento, misoginia e misantropia nel modo insieme crudo ed elegante con cui viene rappresentata la violenza e tratteggiata la psicologia: valgano per tutti, il pestaggio dei due bikers a Chris, ripreso coreograficamente dall’alto, o anche la risatina inconsapevole di Dottie sovrapposta all’immagine dell’auto che va in fiamme con dentro il cadavere della madre. I personaggi sono ritratti come dei perfetti idioti, ben oltre l’inettitudine boriosa degli anti-eroi coen-iani. La figura paterna viene irrisa, quella femminile scissa fra la puttana e l’adolescente problematica. Proprio quest’ultima, Dottie, dovrebbe essere la chiave per cercare non tanto una purezza (che nel Friedkin-pensiero non esiste, nemmeno nella piccola Regan ante-possessione) quanto una variante centrifuga alla lettura di un’opera ricca sì di spunti anti-convenzionali, ma tutto sommato monocorde nello sviluppo del discorso tematico: purtroppo, il suo personaggio (nonostante una convincente Juno Temple) rimane un po’ schiacciato dalla barbarie del mondo adulto, restando in balia di un risaputo mix di candore, consapevolezza, dolcezza, stolidità, sensualità, desiderio sessuale, fascinazione per i misteri del mondo adulto, una specie di Alice in Wonderland disincantata insomma (certo che alcune trovate di sceneggiatura, come il ricordo di una relazione virtuale avuta con un compagno di classe grassottello, lasciano parecchio perplessi). In tutto questo, Killer Joe (un McConaughey un po’ fuori parte) risulta una figura a metà strada fra una versione rovesciata del “Cavaliere della valle solitaria” di stevens-iana memoria e l’Harry Powell della “Night of the Hunter” laughton-iana: da un lato figura astratta, venuta da chissà quale perversa mitologia, a “salvare” una famiglia a rischio; dall’altro un’affascinante personificazione del Male, che tiene sotto scacco un desolante corsorzio umano di “inetti a vivere”. Il suo rapporto con Dottie avrebbe meritato maggiore approfondimento, senz’altro: era lì che il film avrebbe potuto, e dovuto, prendere il volo. Le idee ci sono, eccome; manca forse quel senso di sintesi, di lucidità, quel disegno “a fuoco” (per quanto ambiguo) dei personaggi e dei loro ruoli reciproci: non c’è un vero gioco di potere fra le parti, le traiettorie dell’attrazione/repulsione sono labili e, di conseguenza, il finale risulta convulso. Una volta appurato che il padre è un fallito, la matrigna una troia, il figlio un povero cristo, la sorella una tontolona, mentre Joe è l’angelo sterminatore che si divora gli ultimissimi avanzi dell’American Dream, cosa resta? Poi c’è un’altra cosa: in questo film di stridori, dove però montaggio e fotografia sono ai massimi livelli espressivi e Friedkin scolpisce l’immagine concedendosi anche brillanti soluzioni (il sogno di Chris della sorella nuda, ad inizio film, sgombrando subito dal campo l’ipotesi di un eventuale tragitto della ragazza dalla purezza verso la corruzione; l’ellisse sull’omicidio della madre, che compare solo come corpo esangue), si nota una certa difficoltà del regista nel gestire un registro pienamente grottesco. Lascia così insoddisfatti l’escalation di assurda violenza del finale, (ir)risolta con una improbabile rivelazione di Dottie, che dovrebbe portare finalmente “vita” in un contesto di pura maciullazione di corpi, ma finisce solo per aumentare la dose di sarcasmo.
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